L’umiltà cristiana

UMILTÀ CRISTIANA

Lectio su Fil 1, 27 – 2, 18

INTRODUZIONE
1. Sia la Parola di Dio che i Maestri spirituali ci insegnano che l’umiltà è una virtù fondamentale per essere autentici discepoli di Cristo, che è stato umile e ci ha chiesto espressamente di imitarlo in questa particolare virtù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 29).
2. L’umiltà è necessaria perché ci insegna ad avere un rapporto vero e buono con:
• Dio: «Il Signore, sebbene sia tanto grande, ha una predilezione per le anime piccole e umili. Quanto più profondamente un’anima si umilia, tanto più amabilmente il Signore le si avvicina, e unendosi strettamente a lei, l’innalza fino al Suo trono»(S. MARIA FAUSTINA KOWALSKA, Diario, 1092).
• noi stessi e con gli altri: «L’umile gode di una pace continua, mentre nel cuore del superbo ci sono spesso invidia e sdegno» (IMITAZIONE DI CRISTO, I, 7, 13).
3. Anche se abbiamo bisogno della virtù dell’umiltà in tutti gli aspetti della nostra vita (nei pensieri e nei sentimenti, nei discorsi e nelle decisioni, nella preghiera e nell’azione, nella famiglia e nel lavoro, nella Chiesa e nella società), con questa Lectio cercheremo di scoprirne, in particolare, il ruolo decisivo per l’edificazione della Comunità cristiana.

I. LETTURA

TESTO: FIL 1, 27 – 2, 1-18
127Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, 28senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è segno di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui, 30sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.
21Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. 3Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
6egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
12Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno di amore. 14Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, 16tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato. 17Ma, anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
AUTORE
L’apostolo Paolo scrive da Efeso, dove è prigioniero, verso il 55 d.C., nel corso del suo terzo viaggio missionario (anni 53-55).

DESTINATARI
Paolo scrive ai cristiani di Filippi, alla Comunità che egli ha fondato insieme a Sila nel 50, in occasione del suo secondo viaggio missionario (anni 50-52). Questa Comunità:
• è formata in prevalenza da pagano-cristiani;
• ha accolto il Vangelo con piena dedizione a Cristo, pur soffrendo persecuzioni;
• è insidiata dalla contro-predicazione dei giudeo-cristiani, che ritengono necessaria la circoncisione e l’osservanza della Legge, per essere salvati;
• ha un vincolo privilegiato e reciproco con Paolo, che ama i Filippesi nell’amore (lett. splànknois – viscere: v. 1, 8) stesso di Cristo; per lui questi fratelli e sorelle sono motivo di gioia e di vanto, nel Signore;
• si è dimostrata generosa anche economicamente, sia verso Paolo che verso i poveri di Gerusalemme;
• soffre per divisioni interne dovute a rivalità personali.

CONTESTO
Riteniamo ben fondata la tesi esegetica che considera la lettera attuale come una sintesi redazionale di tre lettere, con questa successione cronologica: (A) un biglietto di ringraziamento per gli aiuti economici, portati da Epafrodìto: 4, 10-20 ; (B) un appello all’unità e alla perseveranza nel testimoniare il Vangelo: 1, 1 – 3, 1 + 4, 2-9. 21-23; (C) la polemica contro i giudeo-cristiani: 3, 2 – 4, 1.
Il nostro testo è nel cuore della lettera-B, e vi rappresenta la sezione esortativa; anche se si tratta di una pericope abbastanza lunga (22 versetti) e ricca di temi importanti (coerenza di vita, impegno nell’evangelizzazione, concordia comunitaria, inno cristologico, testimonianza), la vogliamo considerare nel suo insieme perché solo così ci consente di mettere a fuoco come la virtù dell’umiltà, vissuta ad imitazione del Cristo pasquale, sia la pietra angolare dell’unità comunitaria. Questo testo è:
• preceduto da:
o un saluto di pace;
o un ringraziamento a Dio per la cooperazione (koinonìa – comunione: v. 1, 5) dei Filippesi al Vangelo, motivo di gioia e di tenerezza per il cuore dell’Apostolo;
o una preghiera perché crescano nel discernimento e nella giustizia, per mezzo di Cristo;
o notizie personali: la sua prigionia e la sua fiducia nel Signore;
o una confidenza: desidererebbe morire per guadagnare la piena unione con Cristo, ma accetta di rimanere nel corpo per aiutare i Filippesi a progredire nella fede;
• seguito da:
o progetto di inviare a Filippi anche Timoteo, dopo Epafrodìto, che è incaricato di portare la lettera;
o invito a superare i disaccordi interni (chiede a Sìzigo di aiutare due sorelle, Evòdia e Sìntiche a ritrovare la concordia: 4, 2-3);
o ripetute esortazioni alla gioia, alla preghiera e alla condotta esemplare;
o saluti finali.

MESSAGGIO
Il nostro testo contiene un appello all’unità della Comunità:
• dopo aver dato la sua disponibilità a rimanere nella carne per il progresso e la gioia della loro fede (1, 24-25), Paolo chiede ai Filippesi un solo impegno: comportarsi in maniera degna del vangelo di Cristo, cioè rimanere saldi in un solo spirito (en enì pnèumati) e combattere unanimi (mià psukè) per la fede (1, 27);
• li scongiura per quello che hanno di più caro e di più sacro – l’esortazione di Cristo, il conforto della carità, la comunione nello Spirito e le viscere di misericordia – a procurargli la gioia completa realizzando tra di loro uno stesso modo di pensare-sentire-desiderare-amare (2, 1-2);
• insegna loro il mezzo per coltivare questa profonda unità: la virtù dell’umiltà (2, 3-4);
• mostra loro il modello della vera umiltà, il Figlio di Dio incarnato e crocifisso (2, 5-8);
• li assicura che questa fatica procurerà loro la «salvezza» grazie alla fedeltà di Dio: «È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (2, 12-3);
• questa unità sta così a cuore all’Apostolo che egli dichiara di essere contento di collaborarvi anche a prezzo del suo sangue (2, 17).

NOTE ESEGETICHE
Di fronte ad un testo inesauribile di ricchezze teologiche e spirituali, ci accontentiamo di mettere a fuoco quattro aspetti che ci aiuteranno ad entrare nella meditazione sull’umiltà proposta da Paolo.

1. Il linguaggio dell’unità
Invitando i Filippesi all’unità, Paolo non ne dà una definizione teorica, e nemmeno usa il sostantivo astratto (presente solo due volte nel NT: enòtes: Ef 4, 3. 13); la descrive invece con una costellazione di espressioni:
• «state saldi in un solo spirito» (1, 27: stèkete en enì pnéumati);
• «combattete unanimi» (1, 27: mià psukè sunathloùntes – letteralmente: combattenti insieme con una sola anima);
• «un medesimo sentire» (2, 2: tò autò fronète – letteralmente: pensate-desiderate la stessa cosa; il verbo fronéo significa: penso, giudico, desidero, amo, coltivo);
• «con la stessa carità» (2, 2: tèn autèn agàpen ékontes);
• «rimanendo unanimi e concordi» (2, 2: sumpsikòi, tò èn fronoùntes – letteralmente: avendo la stessa psiche-anima, pensando-desiderando un’unica cosa);
• «gli uni gli altri» (2, 3. allèlous: gli uni gli altri – questo pronome è fondamentale perché esprime l’esigenza della reciprocità, senza la quale non è possibile l’unità);
• «abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo» (2, 5: toùto fronèite en umìn ò kaì en Cristò Iesoù – letteralmente: questo pensate-desiderate in voi, quello che c’è stato in Cristo Gesù).
Dall’insieme di queste espressioni risulta che l’unità proposta da Paolo ai Filippesi – e a noi – abbraccia i pensieri e gli affetti, la volontà e il comportamento: una Comunità cristiana è unita quando tutti pensano, desiderano, amano, vogliono e fanno la stessa cosa, e questa cosa è esattamente quello che c’era nella Persona (mente-cuore-volontà-corpo) di Gesù Cristo; che cosa c’era in Lui? L’umiltà divina.

2. Le dimensioni dell’umiltà
Il nostro testo presenta l’umiltà da tre punti di vista complementari, cioè come modo di:
a. pensare: questa dimensione è suggerita dal termine stesso tapeinofrosùne (v. 2, 3 – letteralmente: il pensare-giudicare di essere basso, miserevole, meschino, povero, inferiore, tapino): in forza di questo modo di pensare (che devono fare proprio), i Filippesi sono invitati da Paolo a considerare gli altri superiori a se stessi;
b. desiderare-orientare le proprie intenzioni e i propri progetti: Paolo dice ai Filippesi che, dal fatto di considerare gli altri superiori a se stessi, deriva che tutti loro devono essere skopoùntes (part. pres. di skopèo: osservo, esamino, cerco di ottenere, mi sta a cuore, ho cura), devono cioè essere solleciti non solo per le cose proprie, ma anche per quelle che riguardano gli altri; in altre parole, il valore superiore attribuito alle persone (a) si trasmette e si esprime nella cura che abbiamo per i loro interessi e per il loro bene (b), almeno tanto quanto ne abbiamo per i nostri;
c. agire: Paolo scrive che Cristo «umiliò se stesso» (2, 8: etapéinosen eautòn, dove il verbo tapeinòo indica l’azione di Cristo che si pone in una situazione di abbassamento attraverso la scelta di obbedire fino all’ignominia della Croce; questa umiltà, come “auto-umiliazione operativa” realizzata con la morte di croce, ha il suo inizio e il suo fondamento nell’Incarnazione, grazie alla quale il Figlio, in tutto uguale a Dio Padre (condividendo con Lui l’unica forma divina – v. 2, 6 –, cioè l’unica natura divina), si abbassa, si spoglia e si svuota (non ontologicamente quanto alla natura, che è rimasta sempre integralmente divina), assumendo la forma umana, così da vivere la sua esistenza terrena come noi, «escluso il peccato» (Eb 4, 15), e giungendo fino a morire crocifisso, la forma di morte riservata al castigo degli schiavi (supplicium servile).
Ogni discepolo di Cristo, chiamato a diventare umile come Lui (Mt, 11, 29), deve mettere sul conto sia (a) l’umiltà del pensiero (retto giudizio-discernimento del valore degli altri), che (b) l’umiltà della sollecitudine (desiderio-disponibilità di servire gli altri), che (c) l’umiltà della spoliazione (perdita del proprio bene fino al sacrificio della vita, a vantaggio degli altri).

3. L’amore pasquale
L’inno cristologico (2, 5-11), collocato da Paolo nel cuore della sua lettera per l’unità della Comunità di Filippi, è la pietra angolare/la chiave di volta che collega l’esortazione all’umiltà con l’amore che Cristo ci ha donato nella Sua Pasqua, cioè con il cuore della nostra vita cristiana: in questa Pasqua definitiva, infatti, Gesù ci insegna che, per amare, è necessario umiliarsi e lasciarsi umiliare. In effetti, nel Suo amore pasquale, quello donato «fino alla fine» (Gv 13, 1), cioè con fedeltà e pienezza, noi possiamo contemplare:
a. l’umiltà nel pensiero: il disegno salvifico del Padre, per il quale all’umanità sarebbe stata restituita la vita grazie alla morte di Cristo, si è fondato sulla valutazione/discernimento che la nostra vita umana di creature ribelli destinate alla morte, aveva un valore più grande della vita umana del Figlio unigenito fatto carne e innocente; per cui la Sua morte è stata voluta (permessa) in cambio della nostra vita; come dire che il Creatore si è dato in cambio della creatura, perché Egli ha considerato (per pura follia d’amore!) la creatura superiore a Se Stesso;
b. l’umiltà nella sollecitudine: guardando al nostro interesse, non al Suo, Cristo si fa nostro prossimo «assumendo la nostra condizione di servi/schiavi» (2, 7), per diventare il buon Samaritano (Lc 10, 29-37) che si prende cura dell’uomo ridotto in fin di vita dal proprio peccato e dall’odio mortale del Maligno. Quest’umile sollecitudine di Gesù è maturata nel Suo Cuore come un fuoco d’amore, ha ispirato il Suo insegnamento ai Dodici sul modo autentico di rapportarsi tra di loro e ha preso la forma di un comportamento esemplare con la lavanda dei piedi nell’ultima Cena.
c. L’umiltà nel sacrificio: «Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (2, 8); poiché l’amore è dono e l’amore più grande è donarsi, Cristo giunge al compimento del Suo amore quando acconsente liberamente al dono di tutto se stesso, al dono della propria vita. Per obbedire alla volontà del Padre Gesù si umilia: in primo luogo perché sottomette la propria volontà umana alla volontà divina; in secondo luogo, donandosi fino a perdere la vita con la morte di croce, Gesù si umilia/si abbassa perché scende in quel vuoto di ogni bene e di ogni valore che è la morte, e per di più vi scende in forza di una condanna ingiusta e di una violenza infame e infamante.
Perciò, quando Gesù ci consegna il suo comandamento: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34), ci chiede di imparare e di esercitare anche la Sua stessa umiltà di pensiero, di servizio e di sacrificio. I Santi l’hanno compreso: «L’umiltà è balia e nutrice della carità» (SANTA CATERINA DA SIENA, Il Dialogo della divina Provvidenza, 154). Ne consegue che tanto è il nostro amore, quanta è la nostra umiltà.

4. Il frutto della gioia
Di fronte all’amore cristiano fondato sull’umiltà, il solo capace di costruire l’unità della Comunità, sorgono almeno due domande:
a. Questo modo di vivere le relazioni fraterne, pur essendo sicuramente autentico e bello, è possibile per noi, così presi dal naturale istinto egoistico e così indeboliti dalle ferite del peccato? Paolo ci risponde assicurandoci per ben sei volte, solo all’interno di questa lettera (1,6; 1, 19; 1, 28; 2, 13; 3, 12; 4, 13), che è possibile perché Dio stesso viene ad operare in noi (2, 13), secondo il progetto d’amore che ha su di noi; appartiene proprio a questa lettera anche la sua testimonianza coraggiosa e lapidaria: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (4, 13).
b. Seconda domanda: dato per acquisito che con l’aiuto di Dio possiamo vivere questo amore divino, essendo comunque un impegno gravoso che passa attraverso la Croce, dovremo rinunciare a vivere con serenità e con gioia? Assolutamente no! La nostra fiducia di essere accompagnati dalla gioia si fonda:
• sulla Sacra Scrittura, dalla quale ricaviamo tre conferme:
o la prima, dalle parole di Gesù: nel corso dell’ultima Cena Egli lava i piedi ai Suoi, chiede loro il servizio reciproco e l’amore nuovo fino a dare la vita, prega per l’unità e infine lascia loro questa promessa: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11); la mia gioia – dice Gesù – cioè una gioia divina, e quindi piena (gr. plerothè: una gioia che raggiunge la sua pienezza);
o la seconda, dalle parole che Paolo scrive ai Galati quando, nel presentare i vari aspetti del frutto dello Spirito Santo, dopo l’amore pone la gioia (Gal 5, 22); alla scuola dei santi Dottori spirituali ne comprendiamo il motivo: poiché la gioia-felicità nasce dal conseguire il proprio bene, poiché il nostro bene è raggiungere il fine per cui siamo creati e poiché questo fine è la comunione con Dio nell’amore – «amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»: Rm 5, 5 –, ne deriva che nella misura in cui amiamo siamo felici, anche se nelle situazioni transitorie di questo mondo il fiore dell’amore è circondato dalle spine prodotte dal peccato;
o la terza conferma la possiamo ricavare proprio dal testo della nostra Lectio: i vocaboli che in greco indicano la gioia, cioè il sostantivo karà e il verbo kàiro, ricorrono con una insolita frequenza in questa lettera paolina sull’unità frutto dell’umiltà pasquale, tanto che JEAN VANIER ha definito la lettera ai Filippesi la “lettera della gioia”.
• sull’esperienza dei Santi: «Sentii la carità entrarmi nel cuore, il bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!» (S. Teresa di Gesù Bambino, Manoscritto A, 45v°);
Se la gioia è il frutto di un amore umile che crea unità, è anche vero che la gioia stessa, a sua volta, porta un ulteriore frutto, che è quello di rendere più forti i vincoli d’amore all’interno della Comunità e di rendere più luminosa ed efficace la sua testimonianza di fronte al mondo.

II. MEDITAZIONE

Dopo lo sguardo globale sul nostro testo, che ci ha permesso di cogliere i legami intrinseci e profondi tra l’umiltà, l’amore e l’unità comunitaria, concentriamo ora la nostra riflessione su quel versetto che ci riguarda tutti e che ci presenta una forma di umiltà tutt’altro che scontata:
Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso (2, 3).
Giova avere sotto gli occhi la traduzione letterale:
tè tapeinofrosùne allèlous egoùmenoi uperekòntas eautòn
con l’umiltà gli uni gli altri considerandovi superiori di se stessi.
Paolo chiede ai Filippesi che, all’interno della Comunità, tutti considerino gli altri superiori a se stessi.
È un richiesta giusta e possibile? Dobbiamo evitare che queste parole siano per i nostri orecchi come una “santa esagerazione” e scivolino sulla durezza del nostro cuore senza fecondare la nostra vita quotidiana; per evitare che restino come una vetta riservata ad anime eccezionali, proviamo a salire questa vetta facendo un passo alla volta, tenendo conto di argomenti che ci vengono offerti sia dalla ragione che dalla nostra fede.

1. Il primo passo: non coltivare un atteggiamento di superiorità nei confronti degli altri, nei confronti di nessuno. Questo impegno è giusto perché:
• tutte le creature umane hanno una uguale dignità, a prescindere da tante variabili (età, sesso, salute, cultura, professione, razza, nazione, lingua, religione, ricchezza, potere, ecc.), che invece diventano spesso causa di discriminazione nella nostra stima e nei nostri comportamenti reciproci;
• anche quando i comportamenti altrui sono oggettivamente negativi (per il danno che producono agli altri: ad es. il furto, l’eccesso di velocità, l’omicidio), e quindi tali da suggerire una perdita di stima a carico di chi li compie, non siamo giustificati a formulare un giudizio morale negativo sul soggetto che li compie (giudizio che ci porterebbe a considerare lui inferiore a noi e noi superiori a lui), perché una corretta valutazione morale deve andare oltre la constatazione dei fatti e prendere in considerazione innanzitutto le condizioni soggettive del comportamento (conoscenza, volontà e libertà), condizioni che noi non possiamo conoscere con certezza, fino in fondo;
• tutti noi dobbiamo mettere sul conto i nostri limiti e le nostre mancanze, che ci devono ispirare umiltà interiore e prudenza nei confronti degli altri;
• oltretutto, è evidente che a certe persone Dio ha concesso e/o concede delle grazie superiori a quelle che ha riservato e/o riserva per noi (sia per la vita naturale che per la vita soprannaturale).

2. Il secondo passo: collocarci alla pari degli altri, sul loro stesso livello; si tratta di:
• avere per gli altri quella stima che noi desideriamo che gli altri abbiano per noi: è una applicazione particolare della Regola d’oro insegnata da Gesù: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7, 12);
• vivere la reciprocità di stima, come un aspetto della reciprocità dell’amore fraterno; è quello che l’apostolo Paolo chiede ai cristiani di Roma: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rm 12, 16);

OSTACOLO: però, l’impegno ad avere reciprocamente gli uni verso gli altri una medesima stima, si scontra con l’evidenza della disparità delle qualità personali (doni naturali e soprannaturali), al punto che alcuni ne sembrano ricchi, altri invece poveri o addirittura mancanti.

3. Il terzo passo: vivere le nostre relazioni nel corpo di Cristo; possiamo superare l’ostacolo di cui sopra solo fondando la nostra stima reciproca sulla realtà che Paolo ricorda ai Corinzi: «Voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1 Cor 12, 27); il riferimento all’appartenenza comune al Corpo di Cristo ci consente di:
• introdurre nelle nostre relazioni uno sguardo di fede, che diventa decisivo per avere di noi stessi e degli altri quella stima che piace al Signore, quella vera che Lui accorda a ciascuno e a tutti; il nostro legame con Cristo è tale che quando abbassiamo un fratello al di sotto di noi, è Cristo stesso che noi umiliamo: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40);
• ricordare che «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1 Cor 12, 7), per cui:
o nessuno è privo di doni;
o il dono di ciascuno è prezioso perché è di origine divina ed è singolare (Dio non fa le cose in serie);
o poiché tutti hanno qualcosa di “originale” da donare agli altri, da mettere al loro servizio, tutti meritano stima;
• apprezzare la diversità dei doni all’interno dell’unità del Corpo di Cristo; questa unità è organica, è cioè una unità ordinata e gerarchica: anche il corpo umano sussiste ed opera perché le varie parti che lo compongono stabiliscono tra di loro rapporti ben definiti e stabili di reciprocità, di complementarietà e anche di organizzazione-dipendenza gerarchica ( ad es. è il sistema nervoso che comanda i muscoli e mai il contrario); in modo analogo, nel Corpo di Cristo tutti i battezzati concorrono alla vita-missione del Corpo con i doni ricevuti personalmente dallo Spirito Santo, in modo tale che la diversità di ciascuno diventa la ricchezza di tutti, grazie ad una complementarietà – «le membra non hanno tutte la medesima funzione»: Rm 12, 4 – che favorisce l’unità, perché nessuno basta a se stesso e il «bene comune» (1 Cor 12, 7) dipende dalla collaborazione di tutti;

OSTACOLO: se è vero che ogni fratello merita stima perché con il suo dono ha un ruolo unico ed insostituibile nel Corpo di Cristo, rimane però lo scoglio della gerarchia dei carismi, del fatto cioè che non tutti i carismi hanno la stessa importanza per il bene del Corpo; e così avviene che quelli più importanti rivestono un valore più grande agli occhi di tutti, e coloro che li “possiedono” e li esercitano sono spontaneamente gratificati (da se stessi e dagli altri) da una stima più grande: anche Paolo sembra ammettere una stima differenziata, fondata sul diverso valore dei carismi personali, quando scrive ai Romani: «Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12, 3); Stando così le cose, come possiamo coltivare una uguale stima reciproca con tutti, con quelli cioè che hanno carismi sia più “grandi” sia più “piccoli” del nostro?

4. Il quarto passo: riconoscere che agli occhi di Dio vale solo la carità, cioè l’amore divino. Paolo ci aiuta a superare l’ostacolo costituito dalla tentazione di una stima differenziata fondata sul diverso valore dei carismi “posseduti” dai singoli quando afferma che la carità è il carisma «più grande» e «sublime», il carisma che rimane per sempre e «non avrà mai fine» perché è «perfetto», mentre tutti gli altri carismi sono transitori ed imperfetti, al punto che se uno li avesse tutti, «ma non avesse la carità, sarebbe un nulla» (1 Cor 12, 31; 13, 1-3. 8-13). Ora, in forza della priorità della carità, il carisma da cui dipende il valore di ogni persona, noi possiamo coltivare verso gli altri fratelli, nella verità e nella reciprocità, i medesimi sentimenti di stima, cioè una stima che non discrimina nessuno perché:
• il dono-carisma della carità è dato a tutti i battezzati, per mezzo dello Spirito Santo (Rm 5, 5);
• anche se i nostri occhi continueranno a vedere doni di diverso valore per l’edificazione del Corpo di Cristo, noi sappiamo che quello che conta è la carità, cioè la dedizione e la fedeltà con la quale ciascuno fa fruttificare il carisma ricevuto;
• siamo coscienti che questa carità la può valutare in verità solo Dio (perché solo Lui conosce i doni che ha dato a ciascuno e la risposta che ha ricevuto e sta ricevendo), per cui noi, non lasciandoci ingannare dalle apparenze, ci fermiamo sulla soglia del cuore di ogni persona, ci asteniamo da ogni giudizio e, prudentemente, offriamo a tutti una uguale stima.

OSTACOLO: è vero che noi siamo tutti e spesso in difetto perché giudichiamo i nostri fratelli con troppa facilità e leggerezza, però non è possibile e non è neanche giusto rinunciare completamente al giudizio. È di questo avviso anche SAN BASILIO IL GRANDE: «Il Signore ora dice: Non giudicate e non sarete giudicati (Lc 6, 37), e ora ordina di giudicare con retto giudizio (cfr. Gv 7, 24). Non ci viene quindi proibito di giudicare in maniera assoluta, ma ci viene insegnato che vi sono diversi modi di giudicare» (Regole brevi, 164). In particolare, come è possibile considerare gli altri superiori a noi stessi quando, con giudizio retto e ponderato, necessario e condiviso, riscontriamo in loro peccati evidenti contro la carità verso Dio e verso il prossimo?

5. Il quinto passo: dobbiamo riconoscere la nostra profonda miseria; infatti, «considerare gli altri superiori a noi stessi» (Fil 2, 3) non significa attribuire loro una perfezione che non hanno; significa piuttosto diventare così coscienti della nostra miseria che non abbiamo più il tempo e il coraggio di cercare nelle miserie degli altri il pretesto per primeggiare su di loro. Così insegna San Giovanni della Croce:
• i principianti nella vita spirituale (coloro che fuggono il peccato veniale e si esercitano nelle virtù, che si impegnano cioè nella notte attiva dei sensi e dello spirito, notte chiamata anche fase purificativa-ascetica), se mancano di discernimento e di una buona guida spirituale, si lasciano prendere facilmente da una gioia vana per le proprie opere buone, gioia dalla quale nasce spesso la presunzione, che a sua volta genera giudizi a danno degli altri; così facendo non progrediscono nella perfezione perché «si indeboliscono molto nella carità verso Dio e verso il prossimo, poiché l’amor proprio che nutrono per le loro opere fa raffreddare in loro la carità» (SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del monte Carmelo, III, 28, 9);
• i principianti invece che progrediscono verso la perfezione, mentre fanno il bene e ne provano consolazione, cercano di coltivare l’umiltà davanti a Dio e al prossimo; questo è possibile perché quanto più amano il Signore tanto più il Signore concede loro di conoscere quello che Lui merita e quanto è piccola cosa quello che essi fanno per Lui; da questa conoscenza nasce in loro una tale sollecitudine di crescere nell’amore per Dio che non stanno a guardare quello che fanno gli altri e non perdono tempo a confrontarsi con loro; in questo modo sono aiutati a evitare presunzione e giudizi sugli altri;
• però, per estirpare radicalmente dal cuore dei principianti che progrediscono ogni mancanza rispetto alla superbia e al giudizio degli altri, Dio li fa entrare in una nuova esperienza spirituale nella quale «essi non trovano alcun gusto nelle cose spirituali e negli esercizi di devozione in cui erano soliti trovare diletto e piacere, ma al contrario vi trovano disgusto e amarezza» (SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Notte oscura, I, 8, 3); è la notte passiva del senso, nella quale «gli spirituali soffrono grandi pene, non tanto a causa delle aridità a cui sono soggetti, quanto per il timore che hanno di andare perduti per quella via, pensando che sia finito per loro il bene spirituale e che Dio li abbia abbandonati» (Ivi, I, 10, 1): questa incapacità di avvicinarsi a Dio grazie all’esercizio delle proprie facoltà (intelletto, memoria e volontà), dà all’anima una nuova conoscenza della propria radicale miseria spirituale; ne deriva una profonda e vera umiltà, dalla quale nasce un nuovo modo di vedere-stimare gli altri; da questa stima nasce anche un nuovo amore, che diventa sollecitudine per il bene altrui, nel servizio, e fino al sacrificio.

6. Il sesto passo: dobbiamo servire; questo servizio:
• è necessario per progredire verso la vetta dell’umiltà cristiana; infatti esiste una circolarità tra il nostro modo di pensare e il nostro modo di agire: se da una parte il nostro modo di trattare gli altri dipende dalla stima che abbiamo per loro, d’altra parte impegnandoci a servirli come il Signore ci comanda (Gv 13, 14-15), si radica in noi un nuovo modo di conoscerli e di stimarli; come è scritto che chi ama il Signore cresce nella conoscenza di Lui (Gv 14, 21), così avviene anche che quando noi amiamo i fratelli – il servizio è autentico amore, senza possibilità di illusioni: 1 Gv 3, 18 – cresciamo nella conoscenza-stima nei loro confronti; questo avviene perché quando noi lasciamo agire lo Spirito Santo nella nostra vita, Lui porta contemporaneamente in noi la fiamma ardente per il cuore e la luce per l’intelletto; con la luce-verità dello Spirito noi potremo riconoscere e accogliere il valore che ha ogni fratello agli occhi di Dio, avere cioè per lui la giusta stima;
• è autentico esercizio di quell’umiltà che ci fa porre gli altri al di sopra di noi stessi: è un’umiltà non semplicemente pensata o desiderata, ma realizzata nelle opere. È eloquente a questo riguardo l’esempio di Gesù: quando nell’ultima Cena ha voluto manifestare-donare ai Dodici il compimento del Suo amore – «sino alla fine»: Gv 13, 1 –, lavò loro i piedi, facendo un gesto di servizio che era riservato agli ultimi, agli schiavi che non avevano diritti e valore di persone, che erano stimati come esseri inferiori. Compiendo quel gesto, Gesù si è posto al di sotto dei Dodici, trattandoli come superiori a Se Stesso;
• dobbiamo compierlo all’interno dello stato di vita in cui la divina Provvidenza ci ha posto, mettendo a frutto quei doni-carismi che lo Spirito ci ha affidati, per rispondere alle necessità dei nostri fratelli, quelle del corpo, della psiche e dello spirito.
• quando è gratuito e mite, cioè puro da interessi e da rivalità, è un grande antidoto alla vanagloria (Fil 2, 3-4);
• ci porterà alla vetta dell’amore umile se noi lo realizziamo seguendo fedelmente Gesù, «il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45).

7. Il settimo passo: dobbiamo offrire la nostra vita in sacrificio per i fratelli; noi raggiungiamo la vetta dell’umiltà che ci fa considerare gli altri superiori a noi stessi quando, sull’esempio di Gesù, sacrifichiamo pure noi la vita per loro. Questo sacrificio:
• è necessario perché si compia in noi quella conformazione a Cristo che Paolo chiede ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (2, 5), il quale «svuotò se stesso» e «si umiliò» fino al sacrificio della Croce (2, 7-8);
• è stato vissuto con gioia dall’apostolo Paolo: «Anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi» (Fil 2, 17);
• realizza la massima stima che noi possiamo avere per gli altri (e quindi la massima umiltà-spoliazione-perdita che noi possiamo chiedere a noi stessi) perché ci fa rinunciare – a loro favore – al bene più grande di cui disponiamo: la vita;
• edifica nel modo più efficace l’unità della Comunità perché:
o colpisce a morte il nostro amor proprio, che è l’ostacolo maggiore alla comunione fraterna;
o attira su di noi e sugli altri il dono dello Spirito Santo, dono di comunione, che il Padre effonde fedelmente come risposta ad ogni atto d’amore;
• comporta tre dimensioni intimamente connesse:
o il libero consenso a partecipare al disegno di salvezza realizzato dal Padre, che cancella la disobbedienza-peccato dell’umanità per mezzo dell’obbedienza-fiducia del Figlio, resa perfetta nel crogiuolo della sofferenza;
o lo sguardo di fede che sa vedere la volontà del Padre in tutte le sofferenze-umiliazioni-perdite che, per varie cause, ci affliggono nel corso di questa vita terrena;
o l’intenzione di intercedere, in Cristo e con l’aiuto del Suo Spirito, a favore di tutta l’umanità, avendo una sollecitudine particolare per coloro che il buon Dio ci affida da amare (familiari, Comunità cristiana, amici);
• non ha niente a che vedere con certi modi patologici di vivere le relazioni umane e le situazioni della vita (ad es.: vittimismo, masochismo o involuzione depressiva) perché la “perdita” non viene né subita né scelta come se fosse un bene per se stessa, ma viene liberamente trasformata in dono e messa a servizio dell’amore, in Cristo e per Cristo; e l’amore-carità è il bene che supera ogni altro bene e che rimane in eterno; per cui sacrificare tutto per amore a Dio e al prossimo non è perdere tutto, ma guadagnare tutto!

III. PROPOSITI

«Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2, 3). Il desiderio di comprendere il significato profondo di questa Parola ci ha portato a prendere coscienza, ad un tempo, delle esigenze della nostra vita cristiana, e del dono di viverla in Comunità.
È un notevole guadagno aver compreso che l’unità dipende da un amore che, per essere autentico, deve essere umile.
È comprensibile e giusto che, accanto allo stupore e alla riconoscenza, prendiamo ancor più coscienza di quella parola di Gesù: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5). Anche l’umiltà è una virtù che possiamo coltivare solo con l’umile fiducia nella grazia di Dio.
Come collaborare pazientemente, sapientemente e quotidianamente con questa grazia?
Fermo restando che ognuno potrà individuare l’impegno che maggiormente conviene al suo cammino spirituale, possiamo considerare particolarmente preziosi i seguenti consigli-propositi:
1. Pregare per ottenere – per noi e per gli altri – il dono di una vera umiltà.
2. Fuggire come una peste i giudizi temerari e le maldicenze.
3. Servire in modo puro, cioè con gratuità, semplicità e generosità, per il Signore.
4. Accettare di soffrire a causa dei fratelli e per i fratelli, con fede e misericordia.
5. Considerare l’umiltà il frutto che rivela l’autenticità del nostro cammino spirituale personale e comunitario.

dall’Imitazione di Cristo

Quand’anche vedessi un altro peccare in modo evidente o commettere qualche grave delitto, non devi tuttavia ritenerti migliore di lui. Tutti siamo fragili, ma tu non reputare nessuno più fragile di te (I, 2, 18-19). Non ti reca danno se ti metti al di sotto di tutti, ti danneggia invece moltissimo se ti metti prima anche di uno solo (I, 7, 12). Non credere di aver fatto qualche progresso, se non ritieni di essere inferiore a tutti gli altri (II, 2, 12).

Info su Padre Domenico Maria Fabbian

Nato nel 1951, alunno del Seminario di Padova per 10 anni (1962-1972), laureato in medicina nel 1982. Monaco dal 1989, ordinato sacerdote nel 1994 e consacrato eremita nel 2000.
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