La carità spirituale

LA CARITÀ SPIRITUALE

Introduzione
1. La carità, in quanto virtù teologale per mezzo della quale amiamo Dio e il prossimo, è dono dello Spirito Santo, e quindi nella sua origine e nella sua natura è sempre spirituale. Se però consideriamo la carità nei suoi frutti e nelle sue opere, possiamo distinguere una carità materiale o corporale, che si prende cura delle necessità materiali del prossimo, e una carità spirituale che si prende a cuore il suo bene spirituale.
2. Fermo restando che una carità autentica non può trascurare le necessità materiali del prossimo, la carità spirituale è più importante della carità materiale, quanto il bene spirituale è più importante del bene materiale, quanto la vita eterna è più preziosa della vita terrena.
3. Per esercitare con profitto la carità spirituale è necessario saper discernere il vero bene spirituale (A), essere coscienti della doverosa urgenza di promuoverlo (B), e utilizzare i mezzi che consentono di conseguirlo (C).

A. IL BENE SPIRITUALE

E’ importante saper discernere il bene spirituale perché i nostri guai non nascono, normalmente, dal fatto che cerchiamo il male in quanto male, ma dal fatto che, credendo di scegliere il bene, ci inganniamo, e finiamo per scegliere il male.
Il bene spirituale può essere compreso e definito a partire:

1. Dalla considerazione della struttura della persona umana
Poiché l’uomo non ha solo una dimensione fisica-materiale (corpo), ma anche una dimensione spirituale (anima), non può accontentarsi soltanto dei beni materiali che appagano il corpo, ma ha bisogno anche dei beni spirituali che appagano l’anima. Poiché le facoltà spirituali dell’anima – l’intelletto, l’affettività e la volontà – si esprimono e si perfezionano nell’amore, possiamo ritenere che il bene spirituale della persona umana sta nell’amore.
“Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione e di amore.
Creandola a sua immagine, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione” (CCC, 2331).

“L’anima non può vivere senza amore, ma sempre vuole amare qualcosa,
perché è fatta d’amore, avendola io creata per amore” (S. Caterina da Siena, Il Dialogo, c. 50).
2. Dall’esperienza umana
Quando ci soffermiamo a considerare quali siano la motivazione (e cioè la spinta iniziale) e il fine (cioè il punto di arrivo) che determinano tutte le azioni, arriviamo a scoprire che tutti gli uomini tendono alla felicità,
come quel bene perfetto che racchiude in sé tutti i beni desiderabili. Scrive Sant’Agostino:
“Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione” (De moribus Ecclesiae catholicae, 1, 3, 4).
“Tutti gli uomini sono d’accordo nel desiderare come fine ultimo la beatitudine” (De Trinitate, lib. XIII, c. 3).
Poiché l’uomo è fatto per amare e per essere felice, dovremmo attenderci che egli riesca a trovare la sua felicità nell’amore. Ma, sempre l’esperienza, ci mostra che l’infelicità pesa sul cuore della maggior parte delle persone che incontriamo. Perché? I motivi sono sostanzialmente due:
• L’uomo si inganna nella scelta del bene da desiderare e da amare.
• L’uomo non riesce, con le sue sole forze, a raggiungere e custodire il bene che ama.
Dove sta l’origine di questa duplice incapacità umana? Sta nel fatto che l’uomo porta in sé un limite, in quanto creatura, e porta in sé un disordine, in quanto peccatore. Stando così le cose l’uomo può realizzare la sua felicità, raggiungere il suo vero bene solo grazie all’aiuto del suo Creatore, solo grazie alla misericordia del suo Salvatore.

3. Dalla rivelazione divina
La parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa ci rivelano che Dio ci chiama alla Sua beatitudine, e che è Lui, e Lui solo quel bene perfetto che può saziare la sete di amore e di felicità che portiamo nel cuore:
“Ho detto a Dio: Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene.
Il Signore è mia parte di eredità.
Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal 15, 2. 5. 11).

“Quelli che non hanno Me, non possono saziarsi, anche se possedessero il mondo;
poiché le cose del mondo sono minori dell’uomo, essendo fatte per l’uomo, non l’uomo per esse;
e perciò egli non può essere saziato da loro.
Io solo, lo posso saziare” (S. Caterina da Siena, Il Dialogo della divina provvidenza, c. 48).

“L’innato desiderio di felicità è di origine divina; Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare” (CCC, 1718).

“Ci hai fatti per te, Signore,
e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te” (Sant’Agostino, Confessioni, 1, 1, 1).

“La comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità […] è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva” (CCC, 1024).

B. UN COMPITO URGENTE

Dopo aver stabilito che il bene spirituale di ogni creatura umana è conoscere ed amare Dio, come l’unico bene che è capace di dare in pienezza vita-amore-felicità, è necessario saper trarre alcune conseguenze fondamentali da tale verità:
1. Poiché Dio è il sommo bene, tutti gli altri beni di cui possiamo fare esperienza in questa vita terrena, devono essere cercati e usati non come fine, ma come mezzi per raggiungere Lui. La bontà di tutto ciò che Dio ha creato – e che in quanto creato è bene relativo – non deve attirare, occupare, sedurre e legare il nostro cuore fino al punto da impedirci di amare il Creatore, nostro unico bene Assoluto , con un amore assoluto.

2. L’atteggiamento di rispetto nei confronti di chi si inganna riguardo al valore delle cose e al senso della vita, non deve impedirci – pur con la saggezza e la dolcezza che ci insegna il Signore – di annunziare la verità cristiana e di donare una autentica e libera testimonianza evangelica. Purtroppo la cecità di coloro che hanno voltato le spalle al Signore si accompagna spesso all’indifferenza dei cristiani tiepidi.

3. Dal momento che il Signore ama ogni creatura umana, e dal momento che il bene integro e duraturo di tale creatura è il bene spirituale, non c’è amore più grande, tanto per il prossimo quanto per il Signore, che rendersi disponibili per collaborare al conseguimento di tale bene spirituale. E’ quanto il Signore ha rivelato a Santa Caterina da Siena:
“Mi è molto gradito il desiderio vostro di sopportare ogni pena e fatica fino alla morte per la salvezza delle anime. Più l’uomo è paziente, più mostra di amarmi” (Dialogo della divina provvidenza, c. 5).

4. Questa collaborazione al bene spirituale del prossimo è un compito specifico e necessario per ogni discepolo di Cristo:
“La Verità eterna mi mostrava che ci aveva creato senza di noi, ma non ci salverà senza di noi. Essa vuole che noi adoperiamo la nostra libera volontà, usando del tempo nell’esercizio delle vere virtù. Perciò andava dicendo: A voi tutti conviene cercare la gloria e la lode del mio nome nella salvezza delle anime, sostenendo con pena le molte fatiche, seguendo le vestigia di questo dolce ed amoroso Verbo; in altro modo non potrete venire a me” (Santa Caterina da Siena, Il Dialogo della divina provvidenza, c. 23).

C. I MEZZI

Chi vuole promuovere il bene spirituale altrui deve cominciare con l’avere cura del proprio bene spirituale, grazie ad una profonda relazione d’amore con il Signore in cui attingere la gioia di essere Suo, il discernimento per riconoscere la Sua volontà, e la forza per realizzarla.
La carità spirituale, alimentata da questa sorgente divina, può essere esercitata con frutto grazie a:

1. L’esempio
In un mondo che ha fatto dell’immagine il suo idolo e dei mezzi di comunicazione un veicolo potente di vanità e di menzogna, il Signore chiede ai Suoi discepoli di realizzare opere buone e, soprattutto, di amarsi perché gli uomini, vedendo la loro testimonianza, siano aiutati ad aprire il loro cuore a Lui:
“Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte,
né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere
perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.
Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone
e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 14-16).
“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me;
perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te,
siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21).
L’esempio è fondamentale anche per la carità spirituale esercitata in famiglia:
“Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché,
anche se alcuni si rifiutano di credere alla Parola, vengano conquistati dalla condotta delle mogli,
senza bisogno di parole, considerando la vostra condotta casta e rispettosa” (1 Pt 3, 1-2).

2. La preghiera
L’amore per il Signore genera nell’autentico discepolo cristiano da una parte lo zelo per la gloria di Dio, dall’altra il dolore per le offese a Lui fatte e per il danno dei peccatori:
“Coloro che sono uniti a me per affetto d’amore, si addolorano quando mi offendono, o vedono altri offendermi” (S. Caterina da Siena, il Dialogo della divina provvidenza, c. 1)
Questo amore ferito alimenta la preghiera:
“O carissima figlia, addolorati della mia offesa e piangi su questi morti, affinché con l’orazione venga distrutta la loro morte”.(S. Caterina da Siena, il Dialogo della divina provvidenza, c. 6).
“Accresci perciò il fuoco del tuo desiderio, e non lasciar passare tempo senza gridare dinanzi a me per loro, con voce umile e orazione continua” (S. Caterina da Siena, il Dialogo della divina provvidenza, c. 4).
In che modo il Signore accoglie la preghiera di coloro che chiedono il bene spirituale del prossimo?
“L’orazione e il desiderio dei miei servi sono il mezzo col quale essi (i peccatori) ricevono il frutto della grazia in umiltà […] Che frutto ricevono? Il frutto è che Io li aspetto, costretto dalle orazioni dei miei servi, e do loro luce interiore, e faccio destare in loro il cane della coscienza, e faccio loro sentire l’odore della virtù e il diletto della conversazione dei miei servi. Talvolta permetto ancora che il mondo mostri loro quello che è veramente, sentendo patimenti di diverso e vario genere, affinché conoscano la poca fermezza del mondo e levino in alto il desiderio a cercare la patria loro della vita eterna. In questi e altri modi, che l’occhio non è sufficiente a vedere, la lingua a narrare, o il cuore a pensare, tu vedi quante siano le vie e i modi che Io tengo, solo per amore, per ricondurli alla grazia. A far così sono costretto dalla mia inestimabile carità, con la quale li creai, e dalle orazioni, desideri e dolori dei miei servi, poiché Io non posso disprezzare le lacrime, il sudore e la loro umile orazione, perché anzi li accetto. Io stesso sono colui che li faccio amare e soffrire per il danno delle anime” (Santa Caterina da Siena, Il Dialogo della divina provvidenza, c. 4).
Il fatto che è il Signore stesso a ispirare la preghiera per i peccatori, da un lato ci rivela il Volto dolcissimo della Sua Misericordia, dall’altro ci incoraggia a perseverare. “Pregare Dio per i vivi e per i morti” è la settima opera di misericordia spirituale.

3. La parola
La parola è il mezzo privilegiato della relazione umana, il mezzo che anche Dio ha scelto per rivelarsi a noi. Quando la nostra parola è ispirata dalla carità spirituale, in funzione delle diverse circostanze e necessità può diventare:
a) Annunzio
E’ necessario continuare ad annunziare il Vangelo di Cristo perché, in questa nostra società post-cristiana, sono sempre più numerose le persone che non hanno ancora conosciuto il Signore, oppure l’hanno frainteso o abbandonato. Abbiamo tutti un compito importante nella missione e nella “nuova evangelizzazione”:
“Come potranno credere, senza averne sentito parlare?
E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?” (Rm 10, 14).
“Non è per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere:
guai a me se non predicassi il vangelo!” (1 Cor 9, 16).
b) Insegnamento
Non basta credere, è necessario nutrire e consolidare la fede con l’insegnamento della “sana dottrina” (cfr. Tt 2, 1). Questo insegnamento è particolarmente importante in questo momento che vede il dilagare dell’ignoranza religiosa anche tra i cristiani, e il moltiplicarsi di movimenti religiosi eterodossi (che presentano cioè dottrine errate): “insegnare agli ignoranti” è la seconda opera di misericordia spirituale.
c) Consiglio
Nel cammino spirituale di ogni cristiano è di capitale importanza realizzare la volontà di Dio; per questo è un prezioso servizio d’amore aiutare a discernere, “consigliare i dubbiosi”: è la prima opera di misericordia spirituale.
d) Conforto
Le sofferenze che la vita riserva a tutti, mettono alla prova la fede: è necessario allora “consolare gli afflitti” (quarta opera di misericordia spirituale), saper piangere con chi piange (cfr. Rm 12, 15), portarne i pesi (cfr. Gal 6, 2) e fargli dono della consolazione del Signore:
“Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione
perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione
con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor, 1, 3-4).
e) Correzione
La parola di Dio ci insegna che la correzione del prossimo:
• è segno di amore (cfr. Pr 3, 12; 13, 24);
• è doverosa (cfr. Ez 33, 7-9);
• va fatta con saggezza (cfr. Mt 18, 15-18), dolcezza (cfr. Gal 6, 1) e fermezza (cfr. Tt 1, 13);
• è meritoria (Gc 5, 19-20).
“Ammonire i peccatori” è la terza opera di misericordia spirituale.

4. Il sacrificio
Come Gesù ci ha procurato il bene spirituale della remissione dei peccati e della comunione con Dio per mezzo del sacrificio della Croce, così noi, Suoi discepoli, dobbiamo collaborare al bene spirituale del nostro prossimo anche con la sofferenza. Il bene spirituale non è un frutto diretto e specifico della sofferenza: nasce dall’amore che, per mezzo della sofferenza, è reso più gratuito, costoso e forte. La sofferenza diventa mezzo di carità spirituale nel momento in cui il discepolo di Cristo:
• accoglie la propria sofferenza con la certezza di fede che Dio può e vuole ricavarvi un maggior bene;
• offre a Dio il proprio abbandono filiale, che è amore autentico e provato, con l’intenzione-preghiera che Lui lo trasformi in benedizione per il prossimo.
Il sacrificio vissuto come carità spirituale può assumere la forma di:
a) Pazienza
Si tratta cioè di offrire a Dio, per il bene del prossimo, tutte le tribolazioni della vita – corporali, psichiche e spirituali – con particolare riguardo alle difficoltà nelle relazioni interpersonali: “sopportare pazientemente le persone moleste” è la sesta opera di misericordia spirituale.
b) Perdono
Colui che è offeso si duole più per l’offesa fatta a Dio e per la colpa dell’offensore che per il proprio danno, e, rinunziando alle esigenze della giustizia e lottando contro l’amor proprio, prega il Signore di usare misericordia al colpevole, e di accreditare a suo beneficio il bene spirituale meritato con il perdono. “Perdonare le offese” è la quinta opera di misericordia spirituale.
c) Penitenza
In questo caso il sacrificio è scelto liberamente, sotto forma di mortificazioni particolari, interne e/o esterne (ad es. digiuno, veglia, silenzio).
d) Consacrazione
E’ la forma più generosa ed esigente di carità spirituale perché chi si offre a Dio gli chiede di operare uno scambio in modo che gli venga data la sofferenza – fisica e/o spirituale – del prossimo, e a questi venga accordato il bene spirituale (o il bene terreno che favorisca il bene spirituale) che non sa o non vuole cercare.
Santa Caterina venne a conoscere dal Signore che suo padre Giacomo, che stava per morire, doveva passare in Purgatorio. La vergine “lottò” a lungo nella preghiera con il Signore per ottenere al padre la grazia di andare direttamente in paradiso:
Infine, dopo tanto insistere, la vergine disse: «Se non si può ottenere la grazia senza salvare in qualche modo la giustizia, si faccia giustizia sopra di me, che per mio padre sono disposta a sopportare qualunque pena stabilita dalla tua bontà». Il Signore la prese in parola, e disse: «Sicuro, per l’amore che mi porti, accetto la tua domanda, e libererò da tutte le pene l’anima del tuo babbo: ma tu, finché vivrai, sopporterai per lui le tribolazioni che ti manderò». […] Nel medesimo istante che l’anima di Giacomo uscì dal corpo, la vergine si sentì oppressa da un dolore ai fianchi, che portò per tutta la vita (Beato Raimondo da Capua, Legenda maior, 221).
Così pregava Santa Faustina Kowalska:
O Gesù, quanto mi fanno pena i poveri peccatori! O Gesù, concedi loro il pentimento ed il dolore; ricordati della Tua dolorosa Passione. Conosco la Tua infinita Misericordia. Non posso sopportare che un’anima, che a Te è costata così tanto, debba perire. O Gesù, dammi le anime dei peccatori! La Tua Misericordia si posi su di loro. Prendimi tutto, ma dammi le anime. Desidero diventare una vittima sacrificale per i peccatori (Diario, 326).

Conclusione
Per esercitare la carità spirituale il cristiano deve avere:
• una fede robusta per discernere la priorità e l’urgenza del bene spirituale di tutti e di ciascuno;
• un amore generoso che arde per la salvezza del mondo e la gioia di Dio.

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L’umiltà cristiana

UMILTÀ CRISTIANA

Lectio su Fil 1, 27 – 2, 18

INTRODUZIONE
1. Sia la Parola di Dio che i Maestri spirituali ci insegnano che l’umiltà è una virtù fondamentale per essere autentici discepoli di Cristo, che è stato umile e ci ha chiesto espressamente di imitarlo in questa particolare virtù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11, 29).
2. L’umiltà è necessaria perché ci insegna ad avere un rapporto vero e buono con:
• Dio: «Il Signore, sebbene sia tanto grande, ha una predilezione per le anime piccole e umili. Quanto più profondamente un’anima si umilia, tanto più amabilmente il Signore le si avvicina, e unendosi strettamente a lei, l’innalza fino al Suo trono»(S. MARIA FAUSTINA KOWALSKA, Diario, 1092).
• noi stessi e con gli altri: «L’umile gode di una pace continua, mentre nel cuore del superbo ci sono spesso invidia e sdegno» (IMITAZIONE DI CRISTO, I, 7, 13).
3. Anche se abbiamo bisogno della virtù dell’umiltà in tutti gli aspetti della nostra vita (nei pensieri e nei sentimenti, nei discorsi e nelle decisioni, nella preghiera e nell’azione, nella famiglia e nel lavoro, nella Chiesa e nella società), con questa Lectio cercheremo di scoprirne, in particolare, il ruolo decisivo per l’edificazione della Comunità cristiana.

I. LETTURA

TESTO: FIL 1, 27 – 2, 1-18
127Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, 28senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è segno di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui, 30sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.
21Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. 3Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
6egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
12Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno di amore. 14Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, 16tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato. 17Ma, anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
AUTORE
L’apostolo Paolo scrive da Efeso, dove è prigioniero, verso il 55 d.C., nel corso del suo terzo viaggio missionario (anni 53-55).

DESTINATARI
Paolo scrive ai cristiani di Filippi, alla Comunità che egli ha fondato insieme a Sila nel 50, in occasione del suo secondo viaggio missionario (anni 50-52). Questa Comunità:
• è formata in prevalenza da pagano-cristiani;
• ha accolto il Vangelo con piena dedizione a Cristo, pur soffrendo persecuzioni;
• è insidiata dalla contro-predicazione dei giudeo-cristiani, che ritengono necessaria la circoncisione e l’osservanza della Legge, per essere salvati;
• ha un vincolo privilegiato e reciproco con Paolo, che ama i Filippesi nell’amore (lett. splànknois – viscere: v. 1, 8) stesso di Cristo; per lui questi fratelli e sorelle sono motivo di gioia e di vanto, nel Signore;
• si è dimostrata generosa anche economicamente, sia verso Paolo che verso i poveri di Gerusalemme;
• soffre per divisioni interne dovute a rivalità personali.

CONTESTO
Riteniamo ben fondata la tesi esegetica che considera la lettera attuale come una sintesi redazionale di tre lettere, con questa successione cronologica: (A) un biglietto di ringraziamento per gli aiuti economici, portati da Epafrodìto: 4, 10-20 ; (B) un appello all’unità e alla perseveranza nel testimoniare il Vangelo: 1, 1 – 3, 1 + 4, 2-9. 21-23; (C) la polemica contro i giudeo-cristiani: 3, 2 – 4, 1.
Il nostro testo è nel cuore della lettera-B, e vi rappresenta la sezione esortativa; anche se si tratta di una pericope abbastanza lunga (22 versetti) e ricca di temi importanti (coerenza di vita, impegno nell’evangelizzazione, concordia comunitaria, inno cristologico, testimonianza), la vogliamo considerare nel suo insieme perché solo così ci consente di mettere a fuoco come la virtù dell’umiltà, vissuta ad imitazione del Cristo pasquale, sia la pietra angolare dell’unità comunitaria. Questo testo è:
• preceduto da:
o un saluto di pace;
o un ringraziamento a Dio per la cooperazione (koinonìa – comunione: v. 1, 5) dei Filippesi al Vangelo, motivo di gioia e di tenerezza per il cuore dell’Apostolo;
o una preghiera perché crescano nel discernimento e nella giustizia, per mezzo di Cristo;
o notizie personali: la sua prigionia e la sua fiducia nel Signore;
o una confidenza: desidererebbe morire per guadagnare la piena unione con Cristo, ma accetta di rimanere nel corpo per aiutare i Filippesi a progredire nella fede;
• seguito da:
o progetto di inviare a Filippi anche Timoteo, dopo Epafrodìto, che è incaricato di portare la lettera;
o invito a superare i disaccordi interni (chiede a Sìzigo di aiutare due sorelle, Evòdia e Sìntiche a ritrovare la concordia: 4, 2-3);
o ripetute esortazioni alla gioia, alla preghiera e alla condotta esemplare;
o saluti finali.

MESSAGGIO
Il nostro testo contiene un appello all’unità della Comunità:
• dopo aver dato la sua disponibilità a rimanere nella carne per il progresso e la gioia della loro fede (1, 24-25), Paolo chiede ai Filippesi un solo impegno: comportarsi in maniera degna del vangelo di Cristo, cioè rimanere saldi in un solo spirito (en enì pnèumati) e combattere unanimi (mià psukè) per la fede (1, 27);
• li scongiura per quello che hanno di più caro e di più sacro – l’esortazione di Cristo, il conforto della carità, la comunione nello Spirito e le viscere di misericordia – a procurargli la gioia completa realizzando tra di loro uno stesso modo di pensare-sentire-desiderare-amare (2, 1-2);
• insegna loro il mezzo per coltivare questa profonda unità: la virtù dell’umiltà (2, 3-4);
• mostra loro il modello della vera umiltà, il Figlio di Dio incarnato e crocifisso (2, 5-8);
• li assicura che questa fatica procurerà loro la «salvezza» grazie alla fedeltà di Dio: «È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (2, 12-3);
• questa unità sta così a cuore all’Apostolo che egli dichiara di essere contento di collaborarvi anche a prezzo del suo sangue (2, 17).

NOTE ESEGETICHE
Di fronte ad un testo inesauribile di ricchezze teologiche e spirituali, ci accontentiamo di mettere a fuoco quattro aspetti che ci aiuteranno ad entrare nella meditazione sull’umiltà proposta da Paolo.

1. Il linguaggio dell’unità
Invitando i Filippesi all’unità, Paolo non ne dà una definizione teorica, e nemmeno usa il sostantivo astratto (presente solo due volte nel NT: enòtes: Ef 4, 3. 13); la descrive invece con una costellazione di espressioni:
• «state saldi in un solo spirito» (1, 27: stèkete en enì pnéumati);
• «combattete unanimi» (1, 27: mià psukè sunathloùntes – letteralmente: combattenti insieme con una sola anima);
• «un medesimo sentire» (2, 2: tò autò fronète – letteralmente: pensate-desiderate la stessa cosa; il verbo fronéo significa: penso, giudico, desidero, amo, coltivo);
• «con la stessa carità» (2, 2: tèn autèn agàpen ékontes);
• «rimanendo unanimi e concordi» (2, 2: sumpsikòi, tò èn fronoùntes – letteralmente: avendo la stessa psiche-anima, pensando-desiderando un’unica cosa);
• «gli uni gli altri» (2, 3. allèlous: gli uni gli altri – questo pronome è fondamentale perché esprime l’esigenza della reciprocità, senza la quale non è possibile l’unità);
• «abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo» (2, 5: toùto fronèite en umìn ò kaì en Cristò Iesoù – letteralmente: questo pensate-desiderate in voi, quello che c’è stato in Cristo Gesù).
Dall’insieme di queste espressioni risulta che l’unità proposta da Paolo ai Filippesi – e a noi – abbraccia i pensieri e gli affetti, la volontà e il comportamento: una Comunità cristiana è unita quando tutti pensano, desiderano, amano, vogliono e fanno la stessa cosa, e questa cosa è esattamente quello che c’era nella Persona (mente-cuore-volontà-corpo) di Gesù Cristo; che cosa c’era in Lui? L’umiltà divina.

2. Le dimensioni dell’umiltà
Il nostro testo presenta l’umiltà da tre punti di vista complementari, cioè come modo di:
a. pensare: questa dimensione è suggerita dal termine stesso tapeinofrosùne (v. 2, 3 – letteralmente: il pensare-giudicare di essere basso, miserevole, meschino, povero, inferiore, tapino): in forza di questo modo di pensare (che devono fare proprio), i Filippesi sono invitati da Paolo a considerare gli altri superiori a se stessi;
b. desiderare-orientare le proprie intenzioni e i propri progetti: Paolo dice ai Filippesi che, dal fatto di considerare gli altri superiori a se stessi, deriva che tutti loro devono essere skopoùntes (part. pres. di skopèo: osservo, esamino, cerco di ottenere, mi sta a cuore, ho cura), devono cioè essere solleciti non solo per le cose proprie, ma anche per quelle che riguardano gli altri; in altre parole, il valore superiore attribuito alle persone (a) si trasmette e si esprime nella cura che abbiamo per i loro interessi e per il loro bene (b), almeno tanto quanto ne abbiamo per i nostri;
c. agire: Paolo scrive che Cristo «umiliò se stesso» (2, 8: etapéinosen eautòn, dove il verbo tapeinòo indica l’azione di Cristo che si pone in una situazione di abbassamento attraverso la scelta di obbedire fino all’ignominia della Croce; questa umiltà, come “auto-umiliazione operativa” realizzata con la morte di croce, ha il suo inizio e il suo fondamento nell’Incarnazione, grazie alla quale il Figlio, in tutto uguale a Dio Padre (condividendo con Lui l’unica forma divina – v. 2, 6 –, cioè l’unica natura divina), si abbassa, si spoglia e si svuota (non ontologicamente quanto alla natura, che è rimasta sempre integralmente divina), assumendo la forma umana, così da vivere la sua esistenza terrena come noi, «escluso il peccato» (Eb 4, 15), e giungendo fino a morire crocifisso, la forma di morte riservata al castigo degli schiavi (supplicium servile).
Ogni discepolo di Cristo, chiamato a diventare umile come Lui (Mt, 11, 29), deve mettere sul conto sia (a) l’umiltà del pensiero (retto giudizio-discernimento del valore degli altri), che (b) l’umiltà della sollecitudine (desiderio-disponibilità di servire gli altri), che (c) l’umiltà della spoliazione (perdita del proprio bene fino al sacrificio della vita, a vantaggio degli altri).

3. L’amore pasquale
L’inno cristologico (2, 5-11), collocato da Paolo nel cuore della sua lettera per l’unità della Comunità di Filippi, è la pietra angolare/la chiave di volta che collega l’esortazione all’umiltà con l’amore che Cristo ci ha donato nella Sua Pasqua, cioè con il cuore della nostra vita cristiana: in questa Pasqua definitiva, infatti, Gesù ci insegna che, per amare, è necessario umiliarsi e lasciarsi umiliare. In effetti, nel Suo amore pasquale, quello donato «fino alla fine» (Gv 13, 1), cioè con fedeltà e pienezza, noi possiamo contemplare:
a. l’umiltà nel pensiero: il disegno salvifico del Padre, per il quale all’umanità sarebbe stata restituita la vita grazie alla morte di Cristo, si è fondato sulla valutazione/discernimento che la nostra vita umana di creature ribelli destinate alla morte, aveva un valore più grande della vita umana del Figlio unigenito fatto carne e innocente; per cui la Sua morte è stata voluta (permessa) in cambio della nostra vita; come dire che il Creatore si è dato in cambio della creatura, perché Egli ha considerato (per pura follia d’amore!) la creatura superiore a Se Stesso;
b. l’umiltà nella sollecitudine: guardando al nostro interesse, non al Suo, Cristo si fa nostro prossimo «assumendo la nostra condizione di servi/schiavi» (2, 7), per diventare il buon Samaritano (Lc 10, 29-37) che si prende cura dell’uomo ridotto in fin di vita dal proprio peccato e dall’odio mortale del Maligno. Quest’umile sollecitudine di Gesù è maturata nel Suo Cuore come un fuoco d’amore, ha ispirato il Suo insegnamento ai Dodici sul modo autentico di rapportarsi tra di loro e ha preso la forma di un comportamento esemplare con la lavanda dei piedi nell’ultima Cena.
c. L’umiltà nel sacrificio: «Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (2, 8); poiché l’amore è dono e l’amore più grande è donarsi, Cristo giunge al compimento del Suo amore quando acconsente liberamente al dono di tutto se stesso, al dono della propria vita. Per obbedire alla volontà del Padre Gesù si umilia: in primo luogo perché sottomette la propria volontà umana alla volontà divina; in secondo luogo, donandosi fino a perdere la vita con la morte di croce, Gesù si umilia/si abbassa perché scende in quel vuoto di ogni bene e di ogni valore che è la morte, e per di più vi scende in forza di una condanna ingiusta e di una violenza infame e infamante.
Perciò, quando Gesù ci consegna il suo comandamento: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34), ci chiede di imparare e di esercitare anche la Sua stessa umiltà di pensiero, di servizio e di sacrificio. I Santi l’hanno compreso: «L’umiltà è balia e nutrice della carità» (SANTA CATERINA DA SIENA, Il Dialogo della divina Provvidenza, 154). Ne consegue che tanto è il nostro amore, quanta è la nostra umiltà.

4. Il frutto della gioia
Di fronte all’amore cristiano fondato sull’umiltà, il solo capace di costruire l’unità della Comunità, sorgono almeno due domande:
a. Questo modo di vivere le relazioni fraterne, pur essendo sicuramente autentico e bello, è possibile per noi, così presi dal naturale istinto egoistico e così indeboliti dalle ferite del peccato? Paolo ci risponde assicurandoci per ben sei volte, solo all’interno di questa lettera (1,6; 1, 19; 1, 28; 2, 13; 3, 12; 4, 13), che è possibile perché Dio stesso viene ad operare in noi (2, 13), secondo il progetto d’amore che ha su di noi; appartiene proprio a questa lettera anche la sua testimonianza coraggiosa e lapidaria: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (4, 13).
b. Seconda domanda: dato per acquisito che con l’aiuto di Dio possiamo vivere questo amore divino, essendo comunque un impegno gravoso che passa attraverso la Croce, dovremo rinunciare a vivere con serenità e con gioia? Assolutamente no! La nostra fiducia di essere accompagnati dalla gioia si fonda:
• sulla Sacra Scrittura, dalla quale ricaviamo tre conferme:
o la prima, dalle parole di Gesù: nel corso dell’ultima Cena Egli lava i piedi ai Suoi, chiede loro il servizio reciproco e l’amore nuovo fino a dare la vita, prega per l’unità e infine lascia loro questa promessa: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11); la mia gioia – dice Gesù – cioè una gioia divina, e quindi piena (gr. plerothè: una gioia che raggiunge la sua pienezza);
o la seconda, dalle parole che Paolo scrive ai Galati quando, nel presentare i vari aspetti del frutto dello Spirito Santo, dopo l’amore pone la gioia (Gal 5, 22); alla scuola dei santi Dottori spirituali ne comprendiamo il motivo: poiché la gioia-felicità nasce dal conseguire il proprio bene, poiché il nostro bene è raggiungere il fine per cui siamo creati e poiché questo fine è la comunione con Dio nell’amore – «amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»: Rm 5, 5 –, ne deriva che nella misura in cui amiamo siamo felici, anche se nelle situazioni transitorie di questo mondo il fiore dell’amore è circondato dalle spine prodotte dal peccato;
o la terza conferma la possiamo ricavare proprio dal testo della nostra Lectio: i vocaboli che in greco indicano la gioia, cioè il sostantivo karà e il verbo kàiro, ricorrono con una insolita frequenza in questa lettera paolina sull’unità frutto dell’umiltà pasquale, tanto che JEAN VANIER ha definito la lettera ai Filippesi la “lettera della gioia”.
• sull’esperienza dei Santi: «Sentii la carità entrarmi nel cuore, il bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!» (S. Teresa di Gesù Bambino, Manoscritto A, 45v°);
Se la gioia è il frutto di un amore umile che crea unità, è anche vero che la gioia stessa, a sua volta, porta un ulteriore frutto, che è quello di rendere più forti i vincoli d’amore all’interno della Comunità e di rendere più luminosa ed efficace la sua testimonianza di fronte al mondo.

II. MEDITAZIONE

Dopo lo sguardo globale sul nostro testo, che ci ha permesso di cogliere i legami intrinseci e profondi tra l’umiltà, l’amore e l’unità comunitaria, concentriamo ora la nostra riflessione su quel versetto che ci riguarda tutti e che ci presenta una forma di umiltà tutt’altro che scontata:
Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso (2, 3).
Giova avere sotto gli occhi la traduzione letterale:
tè tapeinofrosùne allèlous egoùmenoi uperekòntas eautòn
con l’umiltà gli uni gli altri considerandovi superiori di se stessi.
Paolo chiede ai Filippesi che, all’interno della Comunità, tutti considerino gli altri superiori a se stessi.
È un richiesta giusta e possibile? Dobbiamo evitare che queste parole siano per i nostri orecchi come una “santa esagerazione” e scivolino sulla durezza del nostro cuore senza fecondare la nostra vita quotidiana; per evitare che restino come una vetta riservata ad anime eccezionali, proviamo a salire questa vetta facendo un passo alla volta, tenendo conto di argomenti che ci vengono offerti sia dalla ragione che dalla nostra fede.

1. Il primo passo: non coltivare un atteggiamento di superiorità nei confronti degli altri, nei confronti di nessuno. Questo impegno è giusto perché:
• tutte le creature umane hanno una uguale dignità, a prescindere da tante variabili (età, sesso, salute, cultura, professione, razza, nazione, lingua, religione, ricchezza, potere, ecc.), che invece diventano spesso causa di discriminazione nella nostra stima e nei nostri comportamenti reciproci;
• anche quando i comportamenti altrui sono oggettivamente negativi (per il danno che producono agli altri: ad es. il furto, l’eccesso di velocità, l’omicidio), e quindi tali da suggerire una perdita di stima a carico di chi li compie, non siamo giustificati a formulare un giudizio morale negativo sul soggetto che li compie (giudizio che ci porterebbe a considerare lui inferiore a noi e noi superiori a lui), perché una corretta valutazione morale deve andare oltre la constatazione dei fatti e prendere in considerazione innanzitutto le condizioni soggettive del comportamento (conoscenza, volontà e libertà), condizioni che noi non possiamo conoscere con certezza, fino in fondo;
• tutti noi dobbiamo mettere sul conto i nostri limiti e le nostre mancanze, che ci devono ispirare umiltà interiore e prudenza nei confronti degli altri;
• oltretutto, è evidente che a certe persone Dio ha concesso e/o concede delle grazie superiori a quelle che ha riservato e/o riserva per noi (sia per la vita naturale che per la vita soprannaturale).

2. Il secondo passo: collocarci alla pari degli altri, sul loro stesso livello; si tratta di:
• avere per gli altri quella stima che noi desideriamo che gli altri abbiano per noi: è una applicazione particolare della Regola d’oro insegnata da Gesù: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7, 12);
• vivere la reciprocità di stima, come un aspetto della reciprocità dell’amore fraterno; è quello che l’apostolo Paolo chiede ai cristiani di Roma: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rm 12, 16);

OSTACOLO: però, l’impegno ad avere reciprocamente gli uni verso gli altri una medesima stima, si scontra con l’evidenza della disparità delle qualità personali (doni naturali e soprannaturali), al punto che alcuni ne sembrano ricchi, altri invece poveri o addirittura mancanti.

3. Il terzo passo: vivere le nostre relazioni nel corpo di Cristo; possiamo superare l’ostacolo di cui sopra solo fondando la nostra stima reciproca sulla realtà che Paolo ricorda ai Corinzi: «Voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1 Cor 12, 27); il riferimento all’appartenenza comune al Corpo di Cristo ci consente di:
• introdurre nelle nostre relazioni uno sguardo di fede, che diventa decisivo per avere di noi stessi e degli altri quella stima che piace al Signore, quella vera che Lui accorda a ciascuno e a tutti; il nostro legame con Cristo è tale che quando abbassiamo un fratello al di sotto di noi, è Cristo stesso che noi umiliamo: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40);
• ricordare che «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1 Cor 12, 7), per cui:
o nessuno è privo di doni;
o il dono di ciascuno è prezioso perché è di origine divina ed è singolare (Dio non fa le cose in serie);
o poiché tutti hanno qualcosa di “originale” da donare agli altri, da mettere al loro servizio, tutti meritano stima;
• apprezzare la diversità dei doni all’interno dell’unità del Corpo di Cristo; questa unità è organica, è cioè una unità ordinata e gerarchica: anche il corpo umano sussiste ed opera perché le varie parti che lo compongono stabiliscono tra di loro rapporti ben definiti e stabili di reciprocità, di complementarietà e anche di organizzazione-dipendenza gerarchica ( ad es. è il sistema nervoso che comanda i muscoli e mai il contrario); in modo analogo, nel Corpo di Cristo tutti i battezzati concorrono alla vita-missione del Corpo con i doni ricevuti personalmente dallo Spirito Santo, in modo tale che la diversità di ciascuno diventa la ricchezza di tutti, grazie ad una complementarietà – «le membra non hanno tutte la medesima funzione»: Rm 12, 4 – che favorisce l’unità, perché nessuno basta a se stesso e il «bene comune» (1 Cor 12, 7) dipende dalla collaborazione di tutti;

OSTACOLO: se è vero che ogni fratello merita stima perché con il suo dono ha un ruolo unico ed insostituibile nel Corpo di Cristo, rimane però lo scoglio della gerarchia dei carismi, del fatto cioè che non tutti i carismi hanno la stessa importanza per il bene del Corpo; e così avviene che quelli più importanti rivestono un valore più grande agli occhi di tutti, e coloro che li “possiedono” e li esercitano sono spontaneamente gratificati (da se stessi e dagli altri) da una stima più grande: anche Paolo sembra ammettere una stima differenziata, fondata sul diverso valore dei carismi personali, quando scrive ai Romani: «Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12, 3); Stando così le cose, come possiamo coltivare una uguale stima reciproca con tutti, con quelli cioè che hanno carismi sia più “grandi” sia più “piccoli” del nostro?

4. Il quarto passo: riconoscere che agli occhi di Dio vale solo la carità, cioè l’amore divino. Paolo ci aiuta a superare l’ostacolo costituito dalla tentazione di una stima differenziata fondata sul diverso valore dei carismi “posseduti” dai singoli quando afferma che la carità è il carisma «più grande» e «sublime», il carisma che rimane per sempre e «non avrà mai fine» perché è «perfetto», mentre tutti gli altri carismi sono transitori ed imperfetti, al punto che se uno li avesse tutti, «ma non avesse la carità, sarebbe un nulla» (1 Cor 12, 31; 13, 1-3. 8-13). Ora, in forza della priorità della carità, il carisma da cui dipende il valore di ogni persona, noi possiamo coltivare verso gli altri fratelli, nella verità e nella reciprocità, i medesimi sentimenti di stima, cioè una stima che non discrimina nessuno perché:
• il dono-carisma della carità è dato a tutti i battezzati, per mezzo dello Spirito Santo (Rm 5, 5);
• anche se i nostri occhi continueranno a vedere doni di diverso valore per l’edificazione del Corpo di Cristo, noi sappiamo che quello che conta è la carità, cioè la dedizione e la fedeltà con la quale ciascuno fa fruttificare il carisma ricevuto;
• siamo coscienti che questa carità la può valutare in verità solo Dio (perché solo Lui conosce i doni che ha dato a ciascuno e la risposta che ha ricevuto e sta ricevendo), per cui noi, non lasciandoci ingannare dalle apparenze, ci fermiamo sulla soglia del cuore di ogni persona, ci asteniamo da ogni giudizio e, prudentemente, offriamo a tutti una uguale stima.

OSTACOLO: è vero che noi siamo tutti e spesso in difetto perché giudichiamo i nostri fratelli con troppa facilità e leggerezza, però non è possibile e non è neanche giusto rinunciare completamente al giudizio. È di questo avviso anche SAN BASILIO IL GRANDE: «Il Signore ora dice: Non giudicate e non sarete giudicati (Lc 6, 37), e ora ordina di giudicare con retto giudizio (cfr. Gv 7, 24). Non ci viene quindi proibito di giudicare in maniera assoluta, ma ci viene insegnato che vi sono diversi modi di giudicare» (Regole brevi, 164). In particolare, come è possibile considerare gli altri superiori a noi stessi quando, con giudizio retto e ponderato, necessario e condiviso, riscontriamo in loro peccati evidenti contro la carità verso Dio e verso il prossimo?

5. Il quinto passo: dobbiamo riconoscere la nostra profonda miseria; infatti, «considerare gli altri superiori a noi stessi» (Fil 2, 3) non significa attribuire loro una perfezione che non hanno; significa piuttosto diventare così coscienti della nostra miseria che non abbiamo più il tempo e il coraggio di cercare nelle miserie degli altri il pretesto per primeggiare su di loro. Così insegna San Giovanni della Croce:
• i principianti nella vita spirituale (coloro che fuggono il peccato veniale e si esercitano nelle virtù, che si impegnano cioè nella notte attiva dei sensi e dello spirito, notte chiamata anche fase purificativa-ascetica), se mancano di discernimento e di una buona guida spirituale, si lasciano prendere facilmente da una gioia vana per le proprie opere buone, gioia dalla quale nasce spesso la presunzione, che a sua volta genera giudizi a danno degli altri; così facendo non progrediscono nella perfezione perché «si indeboliscono molto nella carità verso Dio e verso il prossimo, poiché l’amor proprio che nutrono per le loro opere fa raffreddare in loro la carità» (SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del monte Carmelo, III, 28, 9);
• i principianti invece che progrediscono verso la perfezione, mentre fanno il bene e ne provano consolazione, cercano di coltivare l’umiltà davanti a Dio e al prossimo; questo è possibile perché quanto più amano il Signore tanto più il Signore concede loro di conoscere quello che Lui merita e quanto è piccola cosa quello che essi fanno per Lui; da questa conoscenza nasce in loro una tale sollecitudine di crescere nell’amore per Dio che non stanno a guardare quello che fanno gli altri e non perdono tempo a confrontarsi con loro; in questo modo sono aiutati a evitare presunzione e giudizi sugli altri;
• però, per estirpare radicalmente dal cuore dei principianti che progrediscono ogni mancanza rispetto alla superbia e al giudizio degli altri, Dio li fa entrare in una nuova esperienza spirituale nella quale «essi non trovano alcun gusto nelle cose spirituali e negli esercizi di devozione in cui erano soliti trovare diletto e piacere, ma al contrario vi trovano disgusto e amarezza» (SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Notte oscura, I, 8, 3); è la notte passiva del senso, nella quale «gli spirituali soffrono grandi pene, non tanto a causa delle aridità a cui sono soggetti, quanto per il timore che hanno di andare perduti per quella via, pensando che sia finito per loro il bene spirituale e che Dio li abbia abbandonati» (Ivi, I, 10, 1): questa incapacità di avvicinarsi a Dio grazie all’esercizio delle proprie facoltà (intelletto, memoria e volontà), dà all’anima una nuova conoscenza della propria radicale miseria spirituale; ne deriva una profonda e vera umiltà, dalla quale nasce un nuovo modo di vedere-stimare gli altri; da questa stima nasce anche un nuovo amore, che diventa sollecitudine per il bene altrui, nel servizio, e fino al sacrificio.

6. Il sesto passo: dobbiamo servire; questo servizio:
• è necessario per progredire verso la vetta dell’umiltà cristiana; infatti esiste una circolarità tra il nostro modo di pensare e il nostro modo di agire: se da una parte il nostro modo di trattare gli altri dipende dalla stima che abbiamo per loro, d’altra parte impegnandoci a servirli come il Signore ci comanda (Gv 13, 14-15), si radica in noi un nuovo modo di conoscerli e di stimarli; come è scritto che chi ama il Signore cresce nella conoscenza di Lui (Gv 14, 21), così avviene anche che quando noi amiamo i fratelli – il servizio è autentico amore, senza possibilità di illusioni: 1 Gv 3, 18 – cresciamo nella conoscenza-stima nei loro confronti; questo avviene perché quando noi lasciamo agire lo Spirito Santo nella nostra vita, Lui porta contemporaneamente in noi la fiamma ardente per il cuore e la luce per l’intelletto; con la luce-verità dello Spirito noi potremo riconoscere e accogliere il valore che ha ogni fratello agli occhi di Dio, avere cioè per lui la giusta stima;
• è autentico esercizio di quell’umiltà che ci fa porre gli altri al di sopra di noi stessi: è un’umiltà non semplicemente pensata o desiderata, ma realizzata nelle opere. È eloquente a questo riguardo l’esempio di Gesù: quando nell’ultima Cena ha voluto manifestare-donare ai Dodici il compimento del Suo amore – «sino alla fine»: Gv 13, 1 –, lavò loro i piedi, facendo un gesto di servizio che era riservato agli ultimi, agli schiavi che non avevano diritti e valore di persone, che erano stimati come esseri inferiori. Compiendo quel gesto, Gesù si è posto al di sotto dei Dodici, trattandoli come superiori a Se Stesso;
• dobbiamo compierlo all’interno dello stato di vita in cui la divina Provvidenza ci ha posto, mettendo a frutto quei doni-carismi che lo Spirito ci ha affidati, per rispondere alle necessità dei nostri fratelli, quelle del corpo, della psiche e dello spirito.
• quando è gratuito e mite, cioè puro da interessi e da rivalità, è un grande antidoto alla vanagloria (Fil 2, 3-4);
• ci porterà alla vetta dell’amore umile se noi lo realizziamo seguendo fedelmente Gesù, «il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45).

7. Il settimo passo: dobbiamo offrire la nostra vita in sacrificio per i fratelli; noi raggiungiamo la vetta dell’umiltà che ci fa considerare gli altri superiori a noi stessi quando, sull’esempio di Gesù, sacrifichiamo pure noi la vita per loro. Questo sacrificio:
• è necessario perché si compia in noi quella conformazione a Cristo che Paolo chiede ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (2, 5), il quale «svuotò se stesso» e «si umiliò» fino al sacrificio della Croce (2, 7-8);
• è stato vissuto con gioia dall’apostolo Paolo: «Anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi» (Fil 2, 17);
• realizza la massima stima che noi possiamo avere per gli altri (e quindi la massima umiltà-spoliazione-perdita che noi possiamo chiedere a noi stessi) perché ci fa rinunciare – a loro favore – al bene più grande di cui disponiamo: la vita;
• edifica nel modo più efficace l’unità della Comunità perché:
o colpisce a morte il nostro amor proprio, che è l’ostacolo maggiore alla comunione fraterna;
o attira su di noi e sugli altri il dono dello Spirito Santo, dono di comunione, che il Padre effonde fedelmente come risposta ad ogni atto d’amore;
• comporta tre dimensioni intimamente connesse:
o il libero consenso a partecipare al disegno di salvezza realizzato dal Padre, che cancella la disobbedienza-peccato dell’umanità per mezzo dell’obbedienza-fiducia del Figlio, resa perfetta nel crogiuolo della sofferenza;
o lo sguardo di fede che sa vedere la volontà del Padre in tutte le sofferenze-umiliazioni-perdite che, per varie cause, ci affliggono nel corso di questa vita terrena;
o l’intenzione di intercedere, in Cristo e con l’aiuto del Suo Spirito, a favore di tutta l’umanità, avendo una sollecitudine particolare per coloro che il buon Dio ci affida da amare (familiari, Comunità cristiana, amici);
• non ha niente a che vedere con certi modi patologici di vivere le relazioni umane e le situazioni della vita (ad es.: vittimismo, masochismo o involuzione depressiva) perché la “perdita” non viene né subita né scelta come se fosse un bene per se stessa, ma viene liberamente trasformata in dono e messa a servizio dell’amore, in Cristo e per Cristo; e l’amore-carità è il bene che supera ogni altro bene e che rimane in eterno; per cui sacrificare tutto per amore a Dio e al prossimo non è perdere tutto, ma guadagnare tutto!

III. PROPOSITI

«Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2, 3). Il desiderio di comprendere il significato profondo di questa Parola ci ha portato a prendere coscienza, ad un tempo, delle esigenze della nostra vita cristiana, e del dono di viverla in Comunità.
È un notevole guadagno aver compreso che l’unità dipende da un amore che, per essere autentico, deve essere umile.
È comprensibile e giusto che, accanto allo stupore e alla riconoscenza, prendiamo ancor più coscienza di quella parola di Gesù: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5). Anche l’umiltà è una virtù che possiamo coltivare solo con l’umile fiducia nella grazia di Dio.
Come collaborare pazientemente, sapientemente e quotidianamente con questa grazia?
Fermo restando che ognuno potrà individuare l’impegno che maggiormente conviene al suo cammino spirituale, possiamo considerare particolarmente preziosi i seguenti consigli-propositi:
1. Pregare per ottenere – per noi e per gli altri – il dono di una vera umiltà.
2. Fuggire come una peste i giudizi temerari e le maldicenze.
3. Servire in modo puro, cioè con gratuità, semplicità e generosità, per il Signore.
4. Accettare di soffrire a causa dei fratelli e per i fratelli, con fede e misericordia.
5. Considerare l’umiltà il frutto che rivela l’autenticità del nostro cammino spirituale personale e comunitario.

dall’Imitazione di Cristo

Quand’anche vedessi un altro peccare in modo evidente o commettere qualche grave delitto, non devi tuttavia ritenerti migliore di lui. Tutti siamo fragili, ma tu non reputare nessuno più fragile di te (I, 2, 18-19). Non ti reca danno se ti metti al di sotto di tutti, ti danneggia invece moltissimo se ti metti prima anche di uno solo (I, 7, 12). Non credere di aver fatto qualche progresso, se non ritieni di essere inferiore a tutti gli altri (II, 2, 12).

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L’arte del perdono

L’ARTE DEL PERDONO

Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi,
perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo (Ef 4, 32).

Introduzione:

1. Usiamo il termine “arte” nel senso di una capacità operativa, di una competenza nella quale confluiscono un dono ricevuto e una abilità acquisita attraverso l’apprendimento e l’esercizio.
2. Estendiamo l’esigenza del perdono non solo ai nemici che ci hanno fatto o continuano a farci del male, ma anche a tutti coloro che, pur essendoci uniti per vincoli di fede, di amicizia e di sangue, non hanno fatto tutto il bene che desideravamo, deludendo le nostre attese.
3. La nostra riflessione intende essere rigorosamente spirituale, nel senso che il nostro obiettivo è quello di presentare il modo cristiano di affrontare le situazioni di inimicizia; per questo faremo costante riferimento alla parola di Dio. Nello stesso tempo, però, terremo presente anche le implicanze psichiche del perdono, perché è tutta la nostra persona che deve essere convertita e guarita.
4. La scelta del perdono cristiano è onerosa e dobbiamo superare tenaci resistenze per realizzarla fino in fondo, ma è irrinunciabile per il discepolo di Cristo; il Signore, infatti, ha posto il “suo” comandamento dell’amore al cuore del Vangelo, e il perdono dei nemici al cuore del modo cristiano di amare. Perciò, prima di analizzare le condizioni e le tappe del perdono cristiano (B), richiameremo brevemente l’originalità dell’insegnamento di Cristo sull’amore fraterno (A).

A. L’AMORE CRISTIANO

L’insegnamento di Cristo può essere così riassunto:

1. L’amore a Dio e al prossimo è il primo e più grande comandamento, nel quale si concentra e dal quale dipende tutta la Scrittura:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima e con tutta la tua mente […]
Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 36-40).
Questa è la risposta che da Gesù a un fariseo-dottore della legge che lo interroga dal punto di vista dell’Antica Alleanza.

2. Quando però Gesù consegna ai suoi discepoli il «suo» comandamento, quel comandamento che riassume il suo insegnamento, la sua opera, la sua vita e il suo dono, si esprime così:
Questo è il mio comandamento:
che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici (Gv 15, 12-13).
Gesù dice bene quando afferma che il suo comandamento è un comandamento “nuovo” (Gv 13, 34); infatti, Egli ha “portato a compimento” (Mt 5, 17) anche questo comandamento tradizionale introducendovi:
• una misura nuova: il Suo stesso modo di amare, un modo divino;
• un prezzo nuovo da mettere sul conto: il dono della propria vita, non solo come servizio e disponibilità al sacrificio, ma anche come impegno a rispondere al male con il bene, dopo aver rinunciato alla logica umana della “giustizia”.
Perciò, è rinnegare la Croce di Cristo mantenere l’amore di se stessi come misura dell’amore agli altri, invocando all’occorrenza gli argomenti di una “ragionevole e naturale giustizia” o di una “sana psicologia”: il buon senso e la psicologia ci possono certamente aiutare a essere persone equilibrate e libere ma, per essere cristiani, il giusto e sano amore di noi stessi deve essere superato per consentirci di seguire Cristo sulla via del “rinnegamento di sé”, della “perdita”, in una parola, della “Croce” (Mc 9, 34-35), contando sulle risorse divine della sapienza e della potenza dello Spirito Santo.

3. Sappiamo che il “prossimo” dell’Israelita era circoscritto entro i limiti del suo popolo; Gesù ha superato ogni limite, ogni argine posto all’amore, chiedendo ai suoi discepoli di amare tutti, perfino i nemici:
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;
ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole
sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?
Non fanno così anche i pubblicani?
E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?
Non fanno così anche i pagani?
Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5, 43-48).
Chiedendoci di perdonare tutti, Gesù ci chiede anche di perdonare tutto, sempre e cordialmente (Mt 18, 21-35); e ci avverte che Dio userà con noi la misura che noi avremo usato con i nostri fratelli (Mt 6, 14-15).

B. LA VIA DELLA PACE

Questo insegnamento di Gesù è semplice da capire, ma sono rare le persone che riescono a realizzarlo nella loro vita, e questo per difetto di:
• fede (insufficiente chiarezza sulle esigenze integrali del Vangelo);
• di buona volontà (non disponibilità a perseverare nella fatica di attuare la parola di Cristo);
• discernimento, poiché non:
o mettono in opera gli strumenti idonei per raggiungere il fine voluto;
o tengono conto del fatto che il perdono, normalmente, è un frutto che matura lentamente passando attraverso alcune tappe obbligatorie; la pretesa frustrata di risolvere i problemi con facilità, rapidità e spontaneità si trasforma in scoraggiamento rinunciatario e/o colpevolizzante, oppure in una contestazione riduttiva delle esigenze evangeliche.

La perfezione del perdono (rigenerazione-crescita dell’amore ferito, tale da coinvolgere simultaneamente e armoniosamente i pensieri, i sentimenti, la volontà e i comportamenti) richiede ascesi (àskesis: esercizio) in cui la volontà, con l’aiuto della grazia, prende per mano sentimenti, pensieri e azioni per educarli-guidarli secondo il cuore di Cristo.
Ecco le scelte da fare, le tappe da percorrere per affrontare cristianamente la situazione in cui veniamo a trovarci quando il comportamento altrui ci diventa ostile, ci fa male, ci delude:

1. Il controllo dell’ira:
consiste nell’esercitare il dominio di sé (Gal 5, 22), nel controllare le proprie reazioni spontanee, immediate e negative, perché «l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio» (Gc 1, 20), e tutto si aggrava e si complica, nell’immediato e nel seguito, quando al male si risponde con il male. A questo proposito, non siamo così ingenui da invocare con leggerezza il diritto di ricorre alla “santa collera”: S. Francesco di Sales (Trattato dell’amor di Dio, 10, 16) ci invita a non prenderci il lusso di “imitare” certi episodi della vita di Gesù e dei santi, se non quando saremo giunti al loro grado di santità perché, diversamente, sotto il pretesto dello zelo per la gloria di Dio e la conversione degli altri, daremo libero corso alle nostre passioni.

2. La decisione di assolvere:
consiste nell’offrire al Signore la determinazione interiore di «non tenere conto del male ricevuto» (1 Cor 13, 5), di cancellarlo come realtà che non esiste più per noi (esattamente come fa Dio con i nostri peccati), di non considerare chi ci ha fatto del male come un debitore che deve pagare, che deve riparare.
Questa decisione ci fa entrare in una più profonda comunione di volontà con il nostro Dio che:
• vuole il bene di tutti con un amore misericordioso;
• può così avere accesso al nostro cuore per cominciare a guarirlo, con il nostro consenso, di cui Lui vuole sempre avere bisogno.
Dopo essere stati “offesi”, è necessario compiere quanto prima questo gesto interiore, in un dialogo-preghiera-patto esplicito con il Signore, con la fiducia che a partire da quel momento:
• il Signore guarderà alla nostra volontà così espressa, non al tumulto dei nostri sentimenti;
• noi abbiamo intrapreso in verità il cammino del perdono.

3. La rinunzia alla vendetta:
consiste nel rendere operativa l’«assoluzione» impegnandoci ad evitare ogni comportamento ostile, intenzionale e volontario, diretto o indiretto, verso chi ci ha fatto o continua a farci del male. Ciò che deve ispirare il nostro agire non sono i sentimenti feriti, ma la volontà che ha “assolto”: è questa la “verità” che abbiamo scelto per amore di Cristo, e questa verità deve passare dalla decisione interiore alle azioni esteriori, grandi e piccole. Contenendo dentro il cuore l’amarezza e l’aggressività, non siamo “doppi” o “ipocriti”, perché il vero “io” che intendiamo essere non si identifica con i nostri sentimenti spontanei disordinati, anche se motivati e “legittimi”, ma con la volontà decisa ad “assolvere”, per amore di Cristo.

La rinunzia alla vendetta non è remissivismo, debolezza o passività di fronte alla responsabilità, che tutti abbiamo, di edificare gli altri nel bene e di coltivare le relazioni fraterne, quando insorgono difficoltà; il Signore ci vuole certamente attivi, intraprendenti e corresponsabili rispetto a quel grande bene comune che è la concordia e la comunione fraterna: è però necessario resistere alla spontanea reazione punitiva, in tutte le sue forme e sfumature, perché non ci accada di farci iniquamente giustizia con le nostre mani («Non fatevi giustizia da voi stessi»: Rm 12, 19); al contrario, rinunziando alla vendetta daremo alla grazia di Dio tempo e modo di abilitarci, al momento opportuno, di essere operatori di misericordia e di riconciliazione.

4. La custodia delle labbra:
consiste nell’evitare di raccontare ad altri il male ricevuto; il parlarne senza necessità sarebbe:
• maldicenza, anche se il racconto fosse perfettamente aderente ai fatti accaduti;
• una forma di vendetta, nel senso di una rivincita verbale ed emotiva, interiore ed esteriore;
• un rimangiarsi la decisione di “assolvere” perché, raccontando il torto subito, noi diveniamo accusatori. Al contrario, come insegna s. Paolo: «La carità tutto copre» (1 Cor, 13, 7).

Il bisogno di parlare è comunemente giustificato e vissuto come uno «sfogo» liberatorio: è un’illusione perché un esame attento della dinamica affettiva e dei risultati interiori dello «sfogo» mostra chiaramente che si tratta di una replica (reply) del vissuto doloroso, replica che riapre la ferita; lo «sfogo», quindi, non solo non ha virtù terapeutiche ma, seminando maldicenze e cercando complicità consolatorie, allontana gli obiettivi cristiani della pace del cuore e della riconciliazione interpersonale.

Il parlare del male ricevuto è utile e perfino necessario quando manchi una sufficiente forza psicologica e spirituale per “contenere” la propria sofferenza interiore e quando il male ricevuto abbia delle ricadute anche su terze persone verso le quali abbiamo delle responsabilità a motivo dei nostri doveri di stato. In questo caso la prudenza, guidata dalla carità, ci aiuterà a non perdere di vista il fine del nostro parlare e ci suggerirà di aprire il nostro cuore a chi sappiamo essere operatore di pace, in Cristo.

5. La conversione dei pensieri:
consiste nel trasformare i ricordi, i sentimenti e le discussioni interiori che invadono il cuore come un fiume in piena che straripa, in una preghiera composta di due elementi inseparabili:
a. innanzitutto una benedizione per chi ci ha fatto del male (Mt 5, 44);
b. seguita immediatamente da una supplica al Signore, chiedendo la guarigione per la propria ferita che ancora «geme», e la capacità di vivere il presente in comunione con Lui.
Questa preghiera deve essere:
• breve, per non diventare un’ occasione, sia pure «spirituale», di rimanere prigionieri del passato;
• sistematica, nel senso di affrontare e convertire i pensieri e gli stati d’animo di sofferenza e di inimicizia, tutte le volte che è necessario, con vigilanza e pazienza.
Questi «pensieri», infatti, devono essere trattati come tentazioni dell’«Accusatore» perché, se li lasciamo agire in noi, portano frutti cattivi in quanto:
• alimentano il risentimento e l’aggressività del nostro cuore verso il “nemico”;
• appesantiscono il cuore sotto una cappa di turbamento e agitazione interiore;
• ci distolgono dal riposare nella comunione con il Signore.
Nella misura in cui noi, al contrario, lottiamo contro questi «pensieri» con le armi della preghiera e della pazienza, scoraggiamo Satana dal continuare nella sua strategia (ci lascerà in pace, infatti, prima di quando lui vorrebbe), perché trasformiamo la tentazione in una occasione di:
• carità-perdono, perché benediciamo evangelicamente chi ci ha fatto del male;
• preghiera di guarigione per il nostro cuore, che noi affidiamo al Signore, il quale sa fare molto meglio del nostro «sfogo» primario, come pure del suo contrario, il «soffocare dentro», che ci potrebbe riuscire solo per breve tempo e non senza danni psicologici e spirituali;
• rinnovata comunione con il Signore, vero e unico traguardo della vita cristiana.

CONCLUSIONE:

A) La parola di Gesù e l’esperienza di coloro che cercano di metterla in pratica, testimoniano che per questa via stretta il cuore ferito ritrova sempre la pace, a prescindere dall’atteggiamento altrui:
Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro per le vostre anime.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero (Mt 11, 28-29).

B) Questa via fa sì che l’esperienza dolorosa dell’inimicizia non sia una “perdita” ma una occasione per inoltrarci con Cristo sulle vie specificamente cristiane e divine dell’amore, quelle dell’amore che perdona. Così cresceranno la nostra conformazione a Cristo e la nostra maturità di figli/e di Dio che hanno per vocazione, compito ed eredità eterna, l’amore.

C) Il perdono cristiano è possibile, però, solo a coloro che attingono in Cristo la sapienza della Croce e l’energia dello Spirito Santo. Quando il perdono si trascina o non si realizza, è la relazione con Cristo che è debole o malata: allora è necessario prendersene cura.

D) Il perdono non è solo possibile, è anche necessario e bello, perché è l’unica speranza che ha il nostro amore umano, così generoso e così fragile, di rigenerarsi dopo le inevitabili ferite date e ricevute per negligenza, debolezza o infedeltà.

E) Il perdono, che riporta la pace nel cuore, è un passaggio preliminare, non il traguardo ultimo della misericordia cristiana: il Signore, infatti, ci chiede poi di diventare ministri di riconciliazione perché, dove l’inimicizia ha creato divisioni e sofferenze, si realizzi una comunione fraterna ancora più vera e cordiale.

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La Riconciliazione

IL MINISTERO DELLA RICONCILIAZIONE

Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo
e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione (2 Cor 5, 18).

INTRODUZIONE

1. Il versetto posto come sottotitolo, pur nella sua brevità, ci dà già in partenza tre spunti importanti sul tema della riconciliazione:
• innanzitutto ci dice che Dio interviene, facendo la Sua parte;
• ci dice poi che Dio ci chiede di fare la nostra parte;
• infine il termine “ministero” (diakonìa in greco), ci ricorda che non si tratta di un’azione semplice e saltuaria, ma di un compito articolato, continuo ed impegnativo.

2. Questo insegnamento sulla riconciliazione è la continuazione di un altro insegnamento, che abbiamo condiviso nel Giubileo del 2000: “L’arte del perdono”. Abbiamo visto allora che quando il perdono è fatto bene, porta sempre il cristiano a ritrovare la pace di Cristo e a crescere nella via dell’amore, anche se il “nemico” che gli ha fatto del male o che continua a fargli del male non cambiasse atteggiamento: diamo a questa situazione il nome di “perdono unilaterale”. Ma questo “perdono unilaterale” non è sufficiente per formare una comunità cristiana, perché in questa deve circolare l’amore di Cristo in modo reciproco: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15, 12). Stando così le cose, ogni membro della Comunità non deve accontentarsi di perdonare tutto, tutti e sempre – ed è già una bella impresa – ma deve assumere come suo compito specifico quello di collaborare con il Signore per suscitare nei fratelli e nelle sorelle con cui condivide il cammino di fede, quella risposta di pentimento, di perdono e di amore, che ancora fa difetto. Come pensare ed attuare tale collaborazione? La risposta a tale domanda è l’oggetto della presente catechesi: il tema è così importante che intendo offrirvi qualcosa di solido, e cioè una sintesi della teologia neotestamentaria della riconciliazione cristiana.

3. Il tema della riconciliazione si estende a tutta la storia della salvezza, perché dopo la rottura causata dal peccato dell’umanità, l’opera di Dio è stata una lunga e paziente ricerca di ristabilire con noi una nuova alleanza d’amore e di pace. Pur nella continuità tra i due Testamenti, su questo tema c’è un radicale salto di qualità tra l’Antico Testamento e il Nuovo; infatti:
• nell’Antico Testamento noi troviamo varie iniziative di riconciliazione tra Dio e il Suo popolo, ma:
• si tratta di alleanze bilaterali, in cui Dio condiziona la sua benedizione alla fedeltà del popolo;
• nel linguaggio biblico non compare mai né il termine riconciliazione né il verbo riconciliare-riconciliarsi;
• nel Nuovo Testamento, invece, la riconciliazione che il Padre offre all’umanità in Cristo è:
• un’Alleanza Nuova che sarà Eterna perché poggia solo su Dio (è quindi un’Alleanza unilaterale), e cioè sul Padre che dona all’umanità il proprio Figlio come mediatore di riconciliazione, e sul Figlio fatto uomo che, a nome dell’umanità, garantisce la fedeltà di tutti noi all’amore con il quale il Padre ci offre la Sua mirabile riconciliazione;
• presente nei diversi scritti come il cardine della missione di Cristo, anche se non viene elaborata con una riflessione articolata ed un linguaggio specifico; questo viene fatto invece da San Paolo – è lui il teologo della riconciliazione – in quattro testi fondamentali, che saranno la struttura portante di questo insegnamento: 2 Cor 5, 18-21; Rm 5, 10-11; Ef 2, 14-18; Col 1, 19-22);
• per quanto riguarda il linguaggio, a parte Mt 5, 24 in cui compare una sola volta il verbo riconciliarsi (gr. diallasso), è solo Paolo che usa 4 volte il sostantivo riconciliazione (gr. katallagè), e 9 volte il verbo riconciliarsi (gr. katallasso/apokatallasso), con una radice (allasso) che veicola un significato di cambiamento-permuta-ripristino, riferito in particolare alla pace.

4. Affronteremo il nostro tema in cinque tappe successive:
I. L’iniziativa del Padre
II. Il sacrificio di Cristo
III. La nostra collaborazione
IV. La parola della riconciliazione
V. Una duplice diaconìa
I. L’INIZIATIVA DEL PADRE

Che cosa ci insegna l’apostolo Paolo sulla riconciliazione?

A. Paolo ci insegna innanzitutto che la riconciliazione cristiana ha origine dal Padre: «Piacque a Dio di fare abitare in Lui – Cristo – ogni pienezza e per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose» (Col 1, 19-20). Il «piacque» esprime una volontà piena di benevolenza: infatti solo Dio, Padre e Creatore, poteva fondare una nuova relazione d’amore tra Lui e l’umanità peccatrice perché:
• l’umanità ribelle, nemmeno desiderava ritornare a Dio;
• l’umanità pentita, non era capace di riparare il peccato e non meritava più l’amicizia di Dio.

B. La riconciliazione donata dal Padre consiste:
• nella remissione dei peccati: «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (2 Cor 5, 19); questo perdono è un atto di misericordia perché:
o precede ogni pentimento umano: «Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito» (Rm 5, 6); Dio non pone alcuna condizione previa;
o scavalca ogni logica di giustizia, perché l’espiazione dei peccati ricade sull’unico Uomo (il Verbo fatto carne, l’Unigenito Dio per natura, fatto uomo nel grembo della Vergine Maria) innocente: «Se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2, 1-2);
o annienta tutti i peccati di tutti gli uomini: «Come per la disobbedienza di uno solo – Adamo – tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo – il nuovo Adamo, Cristo – tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19);
è importante sottolineare che il Padre agisce solo per misericordia, perché: [1] solo così la riconciliazione è accessibile a tutti; [2] noi non possiamo sperimentare la riconciliazione, e così far rinascere l’amore fraterno in una Comunità divisa, se non mettendo in programma quella conversione che ci renda veramente misericordiosi;
• nell’offrire ancora all’umanità la possibilità di una nuova relazione d’amore con Lui:
o fondata su una grazia sovrabbondante: «Laddove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5, 20); questa grazia è il dono di un «cuore nuovo» e di uno «Spirito nuovo» promesso da Dio per bocca dei profeti Geremia ed Ezechiele (Ger 31, 33; Ez 36, 26);
o che rende i discepoli di Cristo «figli adottivi di Dio» (Rm 8, 14-16), «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2, 19).

C. Il Padre opera la riconciliazione con l’umanità peccatrice per mezzo di Cristo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5, 21).

II. IL SACRIFICIO DI CRISTO

In che modo Cristo opera la riconciliazione di ogni uomo con Dio e con gli altri uomini? La risposta di Paolo è chiara, sorprendente e profonda: Cristo opera la riconciliazione «annullando la Legge» (Ef 2, 14-16).

A. Era necessario annullare la legge mosaica perché questa era divenuta causa di inimicizia tra:
• ebrei e pagani, in quanto i primi si consideravano un popolo privilegiato e separato dagli altri uomini, che essi ritenevano incirconcisi ed esclusi dai beni delle promesse divine (Ef 2, 11-12);
• Dio e gli ebrei perché questi, non avendo obbedito alla Legge, avevano tradito l’Alleanza del Sinai, offendendo Dio in modo irreparabile, divenendo suoi «nemici» (Rm 5, 10) e contraendo un «debito» (Col 2, 14) impossibile da estinguere.

B. In che modo Cristo ha annullato la Legge? L’ha fatto in due tappe:
• durante il suo ministero pubblico Cristo ha “annullato” la Legge non abrogandola – dice infatti esplicitamente: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento» (Mt 5, 17) – ma provocando il suo superamento, sostituendo alla logica della giustizia umana quella della misericordia divina; questo è particolarmente chiaro in Mt 5, 20-48, in cui Gesù esordisce così: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli»: v. 20; seguono sei esempi, che gli esegeti chiamano “antitesi”, in cui Gesù prende alcune disposizioni della legge mosaica e le “annulla” sostituendole con delle norme nuove; Gesù non cancella la Legge, lasciando un vuoto; prende la Legge fondata sulla giustizia e sul buon senso, e la sostituisce con una nuova legge fondata sulla misericordia (un amore più generoso nel fare il bene agli altri, un amore più benevolo nel sopportare-cancellare il male ricevuto dagli altri): l’esempio più chiaro è l’insegnamento sul perdono dei nemici: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5, 43-46);
• nell’«ora» della Sua Pasqua Cristo ha obbedito al Padre che Gli ha chiesto di prendere su di Sé tutte le nostre trasgressioni alla Legge, e di pagarne tutte le conseguenze previste, con «la morte e la morte di croce» (Fil 2, 8): il Padre infatti «Lo trattò da peccato in nostro favore» (2 Cor 5, 21), «annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2, 14); Cristo dunque, ha “annullato” la Legge con la Sua Croce perché:
o avendo riparato le nostre disobbedienze con la Sua obbedienza – un’obbedienza a caro prezzo: Eb 5, 8 – ha impedito alla Legge trasgredita di continuare ad accusarci presso Dio, come ribelli, come Suoi nemici, perché alla Legge Lui ha restituito quello che le era stato tolto (l’obbedienza di Cristo opera un annullamento di fatto: il Suo «Sì» divino cancella i nostri innumerevoli «no» umani);
o la riparazione non è stata fatta, secondo le regole della giustizia, dagli uomini, i veri colpevoli, ma è stata fatta dal Figlio di Dio fatto uomo, unico uomo innocente, e per pura misericordia (l’innocenza di Cristo opera un annullamento di principio: non vale più la Legge della giustizia – chi sbaglia, paga – ma la Legge nuova della misericordia: quando uno si pente, il Padre condona gratuitamente, attingendo ai tesori infiniti dei meriti della Passione redentrice del Suo Figlio).

C. Cristo ha pagato di persona la Sua opera di riconciliazione:
• «distruggendo in se stesso l’inimicizia» (Ef 2, 16): Gesù non ha lottato contro i Suoi nemici o i nemici di Dio; non ha nemmeno attuato una mediazione neutrale tra Dio e noi; ha preso su di Sé la nostra inimicizia, la «nostra ostilità di peccatori» (Eb 12, 3) e l’ha distrutta rispondendo al male con il bene; qui sta il cuore ed il vertice della Sua opera di riconciliazione;
• il male che noi Gli abbiamo fatto è stato la «morte del suo corpo di carne […] con il sangue della sua croce» (Col 2, 20. 22), è l’averlo punito e sacrificato come un malfattore;
• il bene con il quale Lui ci ha risposto è:
o un perdono senza limiti, che ci ridona sempre la piena comunione con Lui e con il Padre;
o il dono dello Spirito Santo (Gv 7, 37-39) che ci abilita a collaborare all’opera della riconciliazione nella Chiesa e nel mondo.

III. LA NOSTRA COLLABORAZIONE

Paolo ci insegna ancora – in particolare in 2 Cor 5, 18-21 – che Dio ci chiede di collaborare all’opera della riconciliazione.

A. Pur essendo frutto di una misericordia gratuita e senza limiti, la riconciliazione perfetta e definitiva che Dio offre all’umanità in Cristo, non raggiunge il suo compimento finché non viene accolta; questa accoglienza è:
• necessaria: la necessità di questa risposta è legata alla natura stessa di ogni alleanza d’amore, che implica la reciprocità;
• duplice, perché noi dobbiamo:
o accogliere la riconciliazione, come il Padre ce la offre personalmente in Cristo;
o portare la riconciliazione cristiana a coloro che ancora non la conoscono e non la vivono.

B. La nostra collaborazione all’opera della riconciliazione è resa preziosa dal fatto che:
• è una esplicita richiesta di Dio (2 Cor 5, 18);
• è un aspetto essenziale della nostra conformazione a Cristo, Principe della Pace;
• da essa dipendono la pace e l’unità della famiglia umana (Ef 2, 14-17), come pure l’autenticità e la gioia dell’amore fraterno nella Chiesa e nelle sue comunità;
• non siamo graditi a Dio se ci presentiamo a Lui senza essere riconciliati tra di noi (Mt 5, 23-24).

C. La nostra collaborazione sarà autentica se realizzerà quattro condizioni:
a. lasciare che Dio «stabilisca in noi la parola della riconciliazione» (2 Cor 5, 19);
b. «parlare come ambasciatori di Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro» (2 Cor 5, 20);
c. «supplicare» (2 Cor 5, 20) perché la riconciliazione divina venga accolta da tutti;
d. adempiere «il ministero – gr. diakonìa – della riconciliazione» (2 Cor 5, 18).

IV. LA PAROLA DELLA RICONCILIAZIONE

Poiché la parola ha un ruolo fondamentale nella relazione tra persone, ha un ruolo fondamentale anche nella riconciliazione, che è l’impegno a ristabilire la relazione con Dio e con il prossimo, relazione compromessa dal peccato, che è la causa di ogni inimicizia. Poiché la riconciliazione cristiana è un’opera divina (che parte dal Padre, si compie nel Cristo e viene comunicata a noi per mezzo dello Spirito Santo), la parola che la fonda deve essere Parola di Dio. Ora, nel NT c’è un vero “Vangelo della riconciliazione”, come verità da accogliere e come esperienza da trasmettere.

A. Verità da accogliere: l’insegnamento di Gesù sulla riconciliazione è raccolto in modo particolare in quella parte del “discorso sulla montagna” (Mt 5, 20-48) che contiene l’unica utilizzazione evangelica del verbo “riconciliarsi” (v. 24) e che contiene sei esempi fondamentali dell’annullamento della Legge. In questo testo Gesù ci insegna fondamentalmente tre cose:
• prevenire le discordie e le divisioni: su questo punto Egli chiede ai Suoi discepoli di:
• non ferire il prossimo con le parole evitando ira, maldicenza (v. 22) e menzogna (v. 37);
• essere distaccati dai beni materiali in modo tale da saperli condividere (v. 42) e da consentire ad esserne privati anche ingiustamente, senza provocare un contenzioso giuridico (v. 40);
• subire la violenza piuttosto che farla (vv. 39. 41);
• vivere integralmente (vv. 27-28) e fedelmente (vv. 31-32) l’amore matrimoniale;
• sanare le divisioni già prodotte: per fare questo Egli ci chiede di:
• perdonare, cioè rispondere al male con il bene (vv. 43-47);
• fare il primo passo (vv. 23-24);
• agire tempestivamente (vv. 25-26), per evitare che il male si propaghi e diventi cronico.
• è necessario essere esigenti con se stessi (v. 29) e indulgenti con gli altri (v. 39).

B. Esperienza da trasmettere: per essere «ambasciatori» (2 Cor 5, 20) della riconciliazione in nome di Cristo è necessario che:
• la verità della riconciliazione sia ben radicata in noi (2 Cor 5, 19: il gr. ha il verbo tìthemi);
• abbiamo sulla bocca le stesse parole di Cristo;
• il nostro agire sia conforme all’esempio di Gesù, in particolare al Gesù della Passione, Morte e Risurrezione di Pasqua.

V. UNA DUPLICE DIACONÌA

Ad immagine del Cristo nostro Maestro e Signore, ci restano ancora due passi decisivi – i più importanti – per collaborare all’opera divina della Riconciliazione: la preghiera e il sacrificio.

A. La preghiera: consiste nel domandare il bene della riconciliazione:
• al Padre, sorgente di «ogni dono perfetto» (Gc 1, 17): la preghiera, infatti è il mezzo:
• che Gesù ci ha insegnato ad usare, pregando Lui, per primo, per l’unità dei Suoi: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21-23);
• che giunge dove non arriva la parola e l’esempio, perché fa appello a Colui che tiene nelle Sue mani il cuore di tutti;
• al prossimo, perché ne faccia dono a Dio (2 Cor 5, 20), agli altri e a noi stessi.
Questa preghiera di domanda sarà tanto più paziente, insistente e fiduciosa, quanto più sarà grande il nostro amore per Dio (con il desiderio di darGli consolazione) e per il prossimo (con il desiderio di vederlo guarito).

B. Il sacrificio: il mondo – anche vicino a noi – trabocca ancora di inimicizia, per cui il Signore, che «ha ucciso l’inimicizia in se stesso» (Ef 2, 14), chiede anche a noi di offrire la nostra persona come “luogo” in cui viene messa a morte l’inimicizia, quella causata dall’ingiustizia altrui verso di noi, quella causata dalla nostra ingiustizia verso gli altri. Perché venga messa a morte in noi questa duplice ingiustizia, noi dobbiamo essere disposti, con l’aiuto di Dio, a «perdere la vita» come Cristo: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire (gr. diakonèin) mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo» (Gv 12, 24-26). Questo sacrificio della vita che il Signore ci chiede:
• è la morte del nostro amor proprio, per cui rinunciamo a danneggiare il bene altrui (e se l’abbiamo fatto ci pentiamo e ripariamo), e se gli altri ci hanno danneggiato, rinunciamo a esigere il giusto risarcimento («perdoniamo di cuore» Mt 18, 35, e facciamo dono di quello che ci è stato tolto);
• è un vero amore di misericordia, un amore divino reso possibile in noi dallo Spirito Santo, l’unico amore che vince la divisione tra fratelli e attira con potenza ad una nuova concordia in Cristo: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). SIA LODATO GESÙ CRISTO!

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Il carisma eremitico

IL CARISMA EREMITICO

La sua fama si diffondeva sempre di più e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie.
Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare (Lc 5, 15-16).

I più grandi Santi, quando potevano evitavano le compagnie umane, e sceglievano di vivere per Dio, in segreto
(Imitazione di Cristo, Lib. I, cap. XX, v. 5).

Introduzione
In questo insegnamento cercheremo di individuare gli elementi specifici della vita eremitica.
Nella prima parte passeremo in rassegna le varie forme di consacrazione cristiana.
Nella seconda parte preciseremo le varie forme di consacrazione religiosa.
Nella terza parte studieremo i testi ecclesiali sulla vita eremitica.
Nella quarta parte presenteremo il carisma particolare dell’eremitismo urbano.

PRIMA PARTE: FORME DI CONSACRAZIONE CRISTIANA

A. La consacrazione battesimale
Tutti i cristiani, grazie al Battesimo, sono consacrati al Padre da Cristo, per mezzo dello Spirito Santo:
«Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini (cf. Eb 5, 1-5), ha fatto del nuovo popolo di Dio “un regno di sacerdoti per Dio suo Padre” (Ap 1, 6; cf. 5, 9-10). I battezzati infatti vengono consacrati mediante la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo, per essere un’abitazione spirituale e un sacerdozio santo, e poter così offrire in sacrificio spirituale tutte le attività umane del cristiano, e annunciare i prodigi di colui che dalle tenebre li ha chiamati alla sua luce ammirabile (cf. 1 Pt 2, 4-10)» (CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Lumen gentium, 10).
La consacrazione battesimale abilita i cristiani a vivere da figli di Dio, esercitando le virtù teologali della fede, della speranza e della carità.

B. La consacrazione sacerdotale
Nell’Ultima Cena, insieme all’Eucaristia Cristo ha istituito il Sacerdozio ministeriale:
«Durante l’Ultima Cena, Cristo ha lasciato alla Chiesa questo suo sacrificio – il sacrificio della nuova ed eterna Alleanza – come Eucaristia: il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue sotto le specie del pane e del vino “al modo di Melchisedek” (Sal 110, 4; cf. Eb 7, 17). Quando dice agli apostoli: “Fate questo in memoria di me!” (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24s.) egli costituisce i ministri di questo Sacramento nella Chiesa, nella quale per tutti i tempi deve continuare, rinnovarsi e attuarsi il sacrificio da lui offerto per la redenzione del mondo, ed a questi stessi ministri ordina di operare – in forza del loro sacerdozio sacramentale – in sua vece: “in persona Christi”» (Giovanni Paolo II, Lettera ai Sacerdoti per il Giovedì Santo, 4 aprile 1985, 1).
La consacrazione sacerdotale abilita alcuni cristiani a servire il popolo di Dio con la carità di Cristo Buon Pastore, nel cui nome annunciano il Vangelo, celebrano i Sacramenti e guidano le comunità.
«L’imposizione delle mani del Vescovo, insieme con la preghiera consacratoria, costituisce il segno visibile di tale consacrazione» (CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 1538).

C. La consacrazione religiosa
Tra tutti i battezzati, laici o sacerdoti, il Signore chiama alcuni a vivere una «speciale conformazione a Cristo vergine, povero e obbediente» (GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, 31). «A questa chiamata corrisponde uno specifico dono dello Spirito Santo, affinché la persona consacrata sia in grado di rispondere alla sua vocazione e al suo compito. Per questo, come testimoniano i riti sia dell’Oriente che dell’Occidente, nella celebrazione della professione monastica o religiosa e nella consacrazione delle vergini, la Chiesa invoca sulle persone prescelte il dono dello Spirito Santo e associa la loro offerta al sacrificio di Cristo» (GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, 30).
La consacrazione religiosa si esprime e si realizza attraverso la professione dei tre consigli evangelici – castità, povertà e obbedienza – e ha il «compito di rendere in qualche modo presente la forma di vita che Cristo ha scelto e di indicarla come un valore assoluto ed escatologico» (GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, 29). Le persone consacrate ricordano a tutti i battezzati che, pur non essendo chiamati a vivere effettivamente e materialmente i consigli evangelici, li devono però abbracciare affettivamente e spiritualmente (cf. 1 Cor 7, 29-31), sapendo che è la forma di vita migliore, in quanto è quella che ha scelto Cristo e che sarà la condizione di tutti nella beatitudine eterna.
SECONDA PARTE: FORME DI VITA CONSACRATA

Semplificando si possono classificare le varie forme di “speciale consacrazione” avendo come criterio l’esperienza di Cristo (A: classificazione cristologica), oppure il modo di assumere la professione dei consigli nella Chiesa (B: classificazione canonica).

A. Classificazione cristologica
La forma di vita abbracciata da Cristo è stata vissuta da Lui con una perfezione divina, per cui coloro che seguono le Sue orme attraverso una speciale consacrazione possono imitarne solo un aspetto; questo spiega la grande varietà di carismi che sta all’origine delle forme di vita consacrata “in senso stretto”. Possiamo raggruppare la varietà dei carismi in tre grandi famiglie:
1) La vita consacrata contemplativa
a) Questa forma di vita consacrata imita e ripresenta Cristo che si ritira in solitudine per pregare.
b) Dà il primo posto alla relazione con Dio, organizzando la vita quotidiana in funzione dell’incontro diretto con Lui nella solitudine, nel silenzio e nella preghiera (liturgia e orazione).
c) Comprende:
• Comunità religiose (es.: Benedettini, Camaldolesi, Carmelitani, Certosini, Clarisse, ecc.).
• Eremiti.
2) La vita consacrata attiva (o apostolica)
a) Questa forma di vita consacrata imita e ripresenta Cristo che inaugura il Regno di Dio con il suo ministero pubblico di predicazione del Vangelo, di liberazione dal maligno e di guarigione dalle malattie.
b) Dà un posto importante alla relazione diretta con il prossimo, al fine di servirlo nelle sue necessità spirituali (istruzione, evangelizzazione) e corporali (indigenza, malattia).
c) Comprende:
• Comunità religiose (es.: Camilliani, Francescani, Gesuiti, Domenicani, Salesiani/e, Comboniani/e, Canossiani/e, ecc.).
• Vergini consacrate.
3) La vita consacrata secolare
a) Questa forma di vita consacrata imita e ripresenta Cristo che condivide in tutto (in particolare nei trent’anni di vita umile ed ordinaria a Nazareth) la condizione di vita dei Suoi contemporanei, operando la salvezza del mondo in modo nascosto (come il lievito nella pasta) compiendo ogni cosa in filiale comunione con la volontà del Padre.
b) Si prefigge di vivere nelle varie attività del mondo, con l’obiettivo (assunto con fede e amore, ma senza dichiarare pubblicamente la propria specifica consacrazione) di orientarle secondo la volontà di Dio e nello spirito evangelico.
c) Coloro che l’abbracciano vivono contemporaneamente:
• Aspetti comunitari:
o sono inseriti in Istituti con incontri regolari per la formazione, la condivisione e le decisioni da prendere;
o hanno contatti quotidiani nel loro ambiente di lavoro;
o possono vivere in fraternità o in famiglia (in cui non si sa, però, che sono persone consacrate).
• Aspetti solitari:
o non condividono ordinariamente e quotidianamente la preghiera e la vita fraterna con i membri del proprio Istituto;
o possono vivere da soli.

B. Classificazione canonica
Poiché la vita di speciale consacrazione appartiene alla Chiesa come una sua realtà costitutiva e preziosa, i Pastori hanno stabilito delle norme per favorirne l’autenticità e la stabilità; queste norme sono raccolte nel CODICE DI DIRITTO CANONICO, Libro secondo (il popolo di Dio), parte terza: Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica (canoni 573-746).
A partire dalle norme canoniche possiamo classificare le varie forme di vita consacrata considerando:
a) Il modo di assumere i consigli evangelici; da questo punto di vista possiamo distinguere:
• Gli Istituti religiosi, nei quali i tre consigli evangelici sono assunti con voti pubblici.
• Gli Istituti secolari, nei quali i tre consigli evangelici sono assunti con voti che rimangono riservati.
• Le Vergini consacrate, che assumono pubblicamente solo il voto di castità.
• Le Società di vita apostolica, nelle quali ordinariamente i consigli evangelici non sono assunti con voti.
b) Le relazioni tra persone consacrate; da questo punto di vista possiamo distinguere coloro che vivono:
• In fraternità, come negli Istituti religiosi di vita attiva e nelle Società di vita apostolica.
• In comunità, riservando spazi e tempi adeguati alla solitudine, come negli Istituti religiosi di vita contemplativa.
• In solitudine, separati dal mondo e dagli altri solitari (eremiti in senso stretto).
c) L’autorità ecclesiastica competente a riconoscere le persone consacrate; da questo punto di vista possiamo distinguere le forme di vita consacrata di diritto:
• Diocesano, quando sono riconosciute dal Vescovo diocesano (Istituti religiosi all’inizio della loro esperienza o numericamente modesti; Vergini consacrate; Eremiti).
• Pontificio, quando sono riconosciute dalla Sede Apostolica (Istituti religiosi il cui carisma li porta ad operare oltre i confini della Diocesi, e che sono numericamente importanti).

COROLLARIO
Gli eremiti sono persone consacrate che hanno un carisma contemplativo, che vivono in solitudine (sia rispetto al mondo che rispetto ad altri eremiti) e che assumono i tre consigli evangelici professandoli pubblicamente nelle mani del Vescovo diocesano.

TERZA PARTE: TESTI ECCLESIALI SULLA VITA EREMITICA

Il Magistero della Chiesa ci offre i tre testi seguenti sulla vita eremitica.

Codice di Diritto Canonico, can. 603 – (25 gennaio 1983)
§ 1. Oltre agli istituti di vita consacrata, la Chiesa riconosce la vita eremitica o anacoretica con la quale i fedeli, in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine, nella continua preghiera e penitenza, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo.
§ 2. L’eremita è riconosciuto dal diritto come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del Vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva il programma di vita che gli è proprio.

Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 921 – (11 ottobre 1992)
921. Gli eremiti indicano ad ogni uomo quell’aspetto interiore del mistero della Chiesa che è l’intimità personale con Cristo. Nascosta agli occhi degli uomini, la vita dell’eremita è predicazione silenziosa di Colui al quale ha consegnato la sua vita, poiché egli è tutto per lui. È una chiamata particolare a trovare nel deserto, proprio nel combattimento spirituale, la gloria del Crocifisso.

Giovanni Paolo II, Vita Consecrata, nn. 7 e 42 – (25 marzo 1996)
7. Gli eremiti e le eremite, appartenenti ad Ordini antichi o ad Istituti nuovi, o anche dipendenti direttamente dal Vescovo, con l’interiore ed esteriore separazione dal mondo testimoniano la provvisorietà del tempo presente, col digiuno e la penitenza attestano che non di solo pane vive l’uomo, ma della Parola di Dio (cfr. Mt 4, 4).
Una tale vita «nel deserto» è un invito per i propri simili e per la stessa comunità ecclesiale a non perdere mai di vista la suprema vocazione, che è di stare sempre con il Signore.
42. [...] Gli eremiti, nella profondità della loro solitudine, non solo non si sottraggono alla comunione ecclesiale, ma la servono con il loro specifico carisma contemplativo.

Da questi testi ecclesiali, che ci offrono ad un tempo un insegnamento e una regola, possiamo ricavare un profilo del carisma eremitico, considerato nelle sue note specifiche (I), nel suo rapporto ecclesiale (II) e nella sua spiritualità (III).

I. NOTE SPECIFICHE
a) Perché una persona consacrata sia eremita è necessario che viva «una più rigorosa separazione dal mondo» (canone 603 § 1). Questa separazione rende possibile una particolare solitudine esteriore, che implica distacco dalle creature e nascondimento: è il «deserto» del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 921. La solitudine esteriore favorisce il silenzio esteriore.
b) Il silenzio esteriore favorisce il silenzio interiore, cioè quel raccoglimento e quella pace che derivano dal distacco (il non pensarci, il non preoccuparsene, il non desiderarle) dalle creature; questo distacco non può e non deve essere assoluto (abbiamo bisogno degli altri e vale anche per gli eremiti che il cuore della vita cristiana è l’amore di Dio, verificato nell’amore al prossimo), ma se non c’è un distacco effettivo, non c’è vita eremitica.
c) Il silenzio interiore rende possibile la relazione d’amore con il Signore, che è la vocazione di ogni cristiano (cfr. Ef 1, 4-5), ma che per l’eremita deve diventare sempre di più:
• profonda: è «l’intimità personale con Cristo» di cui parla il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 921;
• esclusiva: «poiché Egli è tutto per lui» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 921); l’eremita assieme alla sua vocazione riceve una grazia particolare per poter maturare nell’amore divino sottraendosi il più possibile alle relazioni umane per immergersi totalmente nella relazione con Dio in Cristo;
• continua: questa continuità è indicata nello «stare sempre con il Signore» del n. 7 di Vita consecrata e nella «continua preghiera» del canone 603 § 1.
Dalla relazione d’amore con il Signore Gesù, che ci inserisce nel Suo Corpo Mistico, che è la Chiesa, deriva anche per l’eremita la necessità del rapporto ecclesiale.

II. RAPPORTO ECCLESIALE
a) L’eremita riceve dalla Chiesa tutto quello che gli consente di essere discepolo di Cristo: l’annuncio del Vangelo, la grazia dei Sacramenti, il servizio dei Pastori che lo guidano nella verità e nella volontà di Dio, l’edificazione reciproca nell’amore all’interno della Comunione dei Santi.
b) L’eremita riceve dalla Chiesa le indicazioni autorevoli per vivere autenticamente la sua particolare vocazione (cfr. i tre testi ecclesiali specifici sopra riportati, insieme a tutte le indicazioni fondamentali che vengono date per ogni forma di vita consacrata).
c) L’eremita riceve dal Vescovo della sua Chiesa locale (Diocesi):
• il discernimento ultimo della sua vocazione;
• l’approvazione della sua Regola di vita (canone 603 § 2);
• la possibilità di professare pubblicamente nelle sue mani i tre consigli evangelici (canone 603 § 2);
• la possibilità di vivere nell’obbedienza, avendo lui come legittimo Superiore (canone 603 § 2).
d) L’eremita dona alla Chiesa:
• il servizio spirituale dell’intercessione fatta di preghiera (come Mosè sul monte) e di sacrificio (come Cristo sulla Croce);
• la testimonianza della priorità dell’amore di Dio e della «provvisorietà del tempo presente» (Vita consecrata, 7).

III. SPIRITUALITÀ
a) L’eremita crede che l’amore accolto da Dio e a Lui ridonato è la suprema vocazione dell’uomo. Crede che solo nella relazione con Cristo si può compiere tale vocazione.
b) L’eremita accetta di essere separato dal mondo per un’iniziativa misteriosa di Dio, confidando che con la vocazione Lui dona anche l’aiuto necessario. Crede che Cristo gli “basta” per diventare santo nell’amore; crede che diventando sempre più santo dà alla Chiesa e al mondo l’aiuto più prezioso.
c) L’eremita abbraccia con coraggio le mortificazioni che sono legate alla sua vocazione (penitenze stabilite dalla Regola, penitenze impreviste), sapendo che deve combattere e rinnegare senza tregua il suo amor proprio per diventare come Gesù e come Maria un “Sì” filiale e totale all’amore del Padre.
d) L’eremita veglia per essere umile (nella sua vita tutto è dono e nulla è acquisito una volta per sempre), fedele (l’obbedienza alla Regola è la via più sicura per perseverare nella volontà di Dio) e riconoscente (anche se la via è stretta, gli è stata riservata da Dio la parte migliore: Lc 10, 42, una eredità magnifica: Sal 15, 6).

QUARTA PARTE: L’EREMITISMO URBANO

È POSSIBILE?
A prima vista la vita eremitica e la città sembrano incompatibili, per il semplice motivo che la città è costituita da molte persone che vivono insieme, mentre l’eremita è chiamato a vivere da solo.
In realtà la solitudine è possibile anche in città perché:
• molte persone alloggiano da sole (un terzo dei nuclei abitativi in Padova è occupato da single); questo può avvenire per scelta (giovani che lasciano la casa paterna per essere autonomi) o per necessità (persone separate/divorziate; anziani);
• l’essere immersi in una massa produce l’esperienza dell’anonimato: le persone che si incrociano non hanno nome e il più delle volte non costruiscono relazioni personali, anche quando si scambiano informazioni e servizi.
L’eremita può vivere da solo in città perché:
• può trovarvi un alloggio autonomo sufficientemente tranquillo;
• può limitare le sue “uscite” allo stretto necessario;
• può passare abbastanza inosservato tra la folla (“abbastanza” e non del tutto, a motivo dell’abito; ma la gran parte della gente va di fretta e pensa ai fatti suoi).
È chiaro, comunque, che la città non è il posto migliore per un eremita perché:
• non è possibile godervi un perfetto silenzio;
• ci sono diverse occasioni per essere distratti e disturbati;
• bisogna mettere sul conto uno stress supplementare perché:
o le possibilità di movimento sono ridotte per l’esigenza della solitudine;
o manca il contatto benefico (per il corpo e la psiche) con la natura.

PERCHÉ?
Visto che la città non è l’ambiente ideale per la vita eremitica, perché alcuni eremiti scelgono di vivere in città?
A questa domanda si possono dare due risposte:
1) Dal punto di vista del percorso personale, un eremita sceglie di vivere in città quando riconosce che questa è la volontà di Dio per lui.
2) Dal punto di vista del disegno che la divina Provvidenza sta realizzando per la salvezza di tutti gli uomini, possiamo pensare che il buon Dio colloca degli eremiti proprio all’interno di una città per:
• ricordare agli uomini, così spesso assorbiti dalle cose terrene, che il grande guadagno della vita (Mt 16, 26) è costruire una storia d’amore con Dio, storia d’amore:
o alla quale l’eremita dedica tutta la sua esistenza;
o che, sola, consente di amare autenticamente anche il prossimo;
• testimoniare ai discepoli del Signore e a tutti coloro che cercano Dio, che la solitudine e il silenzio:
o sono necessari alla vita interiore e alla preghiera di tutti;
o sono possibili anche in città, secondo le particolari condizioni di ciascuno;
• suggerire a chi è solo per necessità che la solitudine può diventare una via di pace, di comunione e di fecondità, se vissuta all’interno di un’intima amicizia con Cristo;
• stare davanti a Dio, sulla breccia della preghiera continua e del sacrificio, per intercedere a vantaggio di tutti (Sal 105, 23; CODICE DI DIRITTO CANONICO, can. 603 § 1).

COME?
La vita eremitica in città, pur ardua, è possibile:
1) Perché il buon Dio con la vocazione dona sempre anche la grazia per realizzarla.
2) Elaborando una Regola di vita (CODICE DI DIRITTO CANONICO, can. 603 § 2) in accordo con il Vescovo diocesano, che diventa per l’eremita il punto di riferimento ecclesiale, sia per il discernimento che per il vincolo di obbedienza.
3) Coltivando la “separazione dal mondo” per mezzo:
• dell’abitazione solitaria;
• dell’orientamento a concentrare le uscite necessarie in una metà della giornata, mattino o pomeriggio;
• dell’intero giorno di deserto settimanale;
• di una vigilante economia riguardo agli incontri, ai rapporti con i familiari e all’uso del telefono, della radio, della stampa e del computer (per lavoro), ferma restando la scelta di non avere televisione.

APPENDICE: L’ESPERIENZA DELLA “LAURA”

COS’È LA LAURA
Le Laure erano dei raggruppamenti di anacoreti, cioè di monaci che pur vivendo da soli, si riunivano come discepoli attorno alla figura di un Anziano, per condividere regolarmente esperienze e preghiera, in particolare la solenne liturgia del sabato e della domenica. Il termine laura in greco significa “sentiero” e fu scelto prendendo spunto dalla rete di sentieri che univano le celle dei singoli eremiti al luogo comunitario centrale e tra di loro.

I BENEFICI DELLA LAURA
La Laura, mentre rispetta gli aspetti specifici della vocazione eremitica, offre agli eremiti che vi aderiscono:
1) momenti di preghiera e di Lectio comunitarie;
2) un percorso organico di formazione dottrinale e spirituale;
3) una semplice, regolare e concreta occasione di condivisione fraterna;
4) un mutuo sostegno economico.

IL PROFILO CANONICO DELLA LAURA
Poiché ogni eremita ha fatto voto di obbedienza al Vescovo diocesano, compete a questi approvare la costituzione della Laura e vegliare sulle sue attività. Poiché fa parte del carisma specifico dell’eremita la “separazione”, la partecipazione alla Laura non deve comportare alcun vincolo canonico, nemmeno di semplice Associazione di fedeli.

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Vincere la tiepidezza

VINCERE LA TIEPIDEZZA

(P. Domenico Maria – eremita)

Lectio su Ap 3, 14-22

INTRODUZIONE

1. Ci proponiamo di riflettere insieme su questa malattia spirituale – la tiepidezza –, sulle cause che la determinano e sui rimedi da adottare per prevenirla e curarla, perché è un tema attuale e che ci interpella tutti. Infatti:
• per essere discepoli di Cristo non basta la scelta di un momento o l’impegno di un tempo particolare: è necessaria la fatica quotidiana di tutta la vita: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23); questo cammino lungo e faticoso, facilmente logora e fa perdere vigore spirituale;
• è difficile perseverare con zelo nel bene in un mondo in cui il male non solo abbonda, ma è anche giustificato: «Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà» (Mt 24, 12).

2. Questo insegnamento ha la forma di una Lectio divina per trasmettere già, non solo come idea ma anche come esperienza, l’importanza del nutrimento della Parola di Dio per ritrovare e custodire il fervore spirituale, secondo l’esperienza dei due discepoli di Emmaus: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32).

3. Possiamo definire così, in modo essenziale, la Lectio divina:
• è una lettura: «Chiamo lectio divina la lettura di una pagina biblica, che tenda a diventare preghiera e a trasformare la vita» (Card. Carlo Maria Martini);
• è divina perché:
o l’oggetto della lettura è la parola di Dio, da Lui ispirata e quindi realmente divina;
o la lettura deve essere fatta sotto l’azione dello Spirito di Dio che, essendo l’autore che ha ispirato la Sacra Scrittura, è anche l’unico che ne può garantirne l’autentica interpretazione;
o ha come fine quello di portare il discepolo che prega la Parola a realizzare la sua vocazione di diventare partecipe della vita divina.

4. L’insegnamento è articolato in cinque sezioni, che corrispondono alle tappe fondamentali della Lectio divina: LETTURA (I), MEDITAZIONE (II), ORAZIONE (III), CONTEMPLAZIONE (IV) E TESTIMONIANZA (V).

I. LA LETTURA

Nel momento della lettura è necessario applicarsi diligentemente al testo per arrivare a capire cosa Dio ha voluto dire all’autore ispirato: è la ricerca del senso letterale.

Testo
14All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi:
Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio:
15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!
16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.
17Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla»,
ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.
18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco,
vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità
e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista.
19Tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti.
20Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta,
io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.
21Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono,
come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono.
22Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese (Ap 3, 14-22).

Contesto
Il brano è tratto dal libro dell’Apocalisse (gr. rivelazione), l’ultimo libro della Bibbia, che ha come obiettivo quello di illuminare, confortare ed esortare le comunità cristiane travagliate dalla persecuzione dell’imperatore romano Domiziano (81-96 d. C.). L’apostolo Giovanni è esiliato nell’isola di Patos a causa del Vangelo; una domenica gli appare il Signore risorto che gli affida sette messaggi per sette chiese dell’Asia minore (attuale Turchia); l’ultimo messaggio è quello per la Chiesa di Laodicea, il testo che stiamo esaminando.

Note esegetiche (l’esegesi è la scienza che ricerca il significato delle parole e dei testi)
Si tratta di mettere in evidenza quei termini e quelle espressioni il cui significato non è chiaro, oppure è particolarmente prezioso per cogliere il messaggio del testo.
v. 14
• angelo della Chiesa: è il responsabile della comunità cristiana, o la comunità cristiana personificata;
• Testimone: (gr. martus) Gesù è il testimone di Dio per eccellenza, e noi Suoi discepoli siamo chiamati ad essere testimoni, anche quando il prezzo si fa caro (martirio, nelle sue varie forme).
v. 16
tiepido: (gr. kliaròs: nella letteratura extra biblica non indica una via di mezzo tra il caldo e il freddo, ma un calore minimo vicino al freddo) è l’aggettivo (compare solo in questo versetto del NT) che sintetizza la “diagnosi” del Signore sulla comunità cristiana di Laodicea; il versetto successivo 17b esplicita tale diagnosi con una serie incalzante di cinque aggettivi: infelice, miserabile (mendicante), povero, cieco e nudo;
vomitarti: questo verbo esprime una incompatibilità (quasi fisica) tra Dio-Amore e l’uomo tiepido, e un disgusto morale.
v. 17
Tu dici: «Sono ricco»: è la conoscenza illusoria dell’uomo tiepido.
v. 18
• Ti consiglio: il Signore prende l’iniziativa per rimediare al problema della tiepidezza;
• comperare: la salvezza non è totalmente gratuita; il dono gratuito di Dio in Cristo, deve essere cercato e almeno accolto;
• da Me: solo in Cristo c’è la nostra liberazione-guarigione-salvezza; Lui vende: oro, vesti e collirio.
v. 19
Amo: è l’amore divino di Cristo l’unica medicina efficace per guarire la nostra tiepidezza.
v. 20
• sto alla porta: il Signore è vicino, è disponibile ora, subito!
• busso: il Signore ha nei nostri confronti un atteggiamento deciso (sa quello che vuole, il nostro bene, il nostro fervore nell’amore) e nello stesso tempo rispettoso: entra nel nostro cuore solo se gli apriamo;
• se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta: il Signore chiede una accoglienza nuova;
• verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me: il Signore promette una nuova relazione d’amore.
v. 21
Il vincitore: per ottenere la vittoria bisogna vincere una guerra, mettere cioè sul conto il combattimento spirituale.
v. 22
ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: attraverso questo testo, è lo Spirito Santo che ci parla, oggi.

Associazioni
Leggendo il testo, possono venire in mente altri passaggi dell’Apocalisse o di altri libri della Bibbia, che aiutano a capire il senso; eccone alcuni per il nostro brano:
• Così parla l’Amen (v. 14): «Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “sì”. Per questo sempre attraverso di lui sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria» (2 Cor 1, 19-20). Commento: «In ebraico, Amen si ricongiunge alla stessa radice della parola credere. Tale radice esprime la solidità, l’affidabilità, la fedeltà. Si capisce allora perché l’Amen può esprimere tanto la fedeltà di Dio verso di noi quanto la nostra fiducia in lui» (CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 1062). Gesù risorto che si presenta all’apostolo Giovanni come Amen, è come se dicesse: «Io sono colui che ha fatto tutta la volontà del Padre, Io sono colui che vi ama per sempre». E voi?
• Conosco le tue opere (v. 15): «Più fallace di ogni altra cosa il cuore e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per rendere a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17, 9-10); solo il Signore ci conosce profondamente e veramente. Per conoscere quello che abbiamo nel cuore, dobbiamo ascoltare il Signore, confrontarci continuamente con la sua Parola. Altrimenti diventiamo ciechi.
• Sei tiepido (v. 16): «Per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà» (Mt 14, 12); l’amore regredisce per la poca disponibilità a soffrire a motivo di una testimonianza controcorrente e/o per la seduzione del cattivo esempio della maggioranza.
• Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco (v. 18): «Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11); solo Gesù ci dona lo Spirito Santo che purifica il bene più prezioso che ci rende veramente ricchi agli occhi di Dio: la capacità di amare. Ma noi pretendiamo di amare a modo nostro!
• Non ho bisogno di nulla (v. 17): «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5); l’unico vero problema della vita cristiana, è vivere continuamente innestati in Cristo, in comunione con Lui, in pensieri, desideri, parole ed azioni.
• Mostrati dunque zelante: «Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6, 13-15); chi è tiepido, ha una fede che a malapena sopravvive, mentre il Signore vuole che siamo testimoni generosi, coraggiosi e forti per combattere ogni forma di male, a incominciare da noi stessi e per trasmettere la verità e la grazia del Vangelo che abbiamo ricevuto nella Chiesa.
• Cenerò con lui ed egli con me (v. 20): «Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 28-32); come per i discepoli di Emmaus, anche per noi la Parola di Dio alimenta l’amore per Cristo, e Lui si fa nostro ospite nell’Eucaristia. Il Signore, che è misericordioso, è sempre disponibile ad aiutarci nella conversione, e dalla tiepidezza che Lo provoca al vomito (intolleranza-repulsione) ci fa passare all’amore grazie al quale Lui diventa nostro ospite, nostro cibo (Comunione eucaristica).
Grazie a questi accostamenti spontanei (favoriti dall’azione dello Spirito Santo e dalla familiarità personale con le Scritture, ottenuta grazie ad una lettura quotidiana ed integrale della Bibbia: Lectio corsiva) la Scrittura – come dicevano i Padri – diventa interprete di se stessa, e cioè si spiega la Scrittura utilizzando la stessa Scrittura.

Messaggio
Dalla lettura attenta del testo possiamo ricavare questo primo messaggio: il Signore non è contento di noi, ci mostra quello che non va (lo chiama tiepidezza), ci chiede un impegno nuovo, non ci nasconde che ci sarà da lottare, ma ci assicura che Lui è con noi, per cui saremo vincitori e condivideremo l’intimità della sua amicizia, per sempre.

II. LA MEDITAZIONE

Se con la Lettura (I) ci siamo applicati al testo per capire quello che Dio ha voluto dire per mezzo dell’autore ispirato nel momento in cui il testo ha preso forma, con la meditazione passiamo ad applicare il testo a noi che lo leggiamo-preghiamo oggi, per capire quello che il Signore ci vuole dire oggi, con questa pagina ispirata. Questa Parola scritta che esiste già da duemila anni, diventa parola ispirata per noi oggi, diventa profezia per la nostra vita grazie al dono dello Spirito che ha ispirato la Parola e che, scrutando i nostri cuori, sa quello che noi abbiamo bisogno di capire oggi, per crescere nella fede e nell’amore di Cristo. Se con la Lettura abbiamo cercato il senso letterale (sintetizzato sopra nel “Messaggio”), con la Meditazione cerchiamo il senso spirituale, che a sua volta può essere distinto in:
• senso allegorico: cercare in ogni parte della Scrittura una rivelazione di fede che conduce in definitiva a Cristo;
• senso morale: trovare quali comportamenti, quale conversione continua mi chiede la Parola;
• senso escatologico: scoprire cosa mi dice il testo sulle cose “ultime” (gr. èskatos: ultimo), riguardanti cioè la nostra vita definitiva, dopo la morte; questo senso è detto anche anagogico (gr. anàgo: conduco in alto), riguardante cioè le cose che ci aspettano in Cielo.
Poiché non è possibile – e neanche utile spiritualmente: sarebbe dispersivo – seguire tutte le piste emerse nel corso della Lettura, ci concentriamo sulla tiepidezza (v. 16), come viene esplicitata dagli aggettivi del v. 17. Consideriamo la tiepidezza come una malattia spirituale e ci chiediamo in che cosa consista e come possa essere curata e prevenuta (le ricadute sono purtroppo frequenti, dopo la guarigione).
Poiché la vita spirituale è costituita dall’«amore di Dio effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5, 5), la tiepidezza è un amore che ha perso di intensità, di prontezza, di generosità e di perseveranza; è il rimprovero che il Signore fa anche alla Chiesa di Efeso: «Ho da rimproverarti che hai abbandonato l’amore che avevi all’inizio» (Ap 2, 4). Vediamo ora le cinque componenti dell’amore tiepido.

1. La cecità
L’amore cristiano ha bisogno di vedere con gli occhi di Dio, di conoscere con la luce e la sapienza dello Spirito Santo. «Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito» (1 Cor 2, 9-14).
Noi diventiamo ciechi quando invece di ascoltare lo Spirito Santo seguiamo la voce delle creature: il nostro modo di pensare, o quello di altre creature.
Il rimedio? Nutrirsi e difendersi quotidianamente con la Parola di Dio, assimilata con l’unzione dello Spirito (il «collirio» del v. 18):
«Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 118, 105).
«Tenete sempre in mano lo scudo della fede e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef 6, 16-17).

2. La povertà
L’amore di un cristiano è povero quando desidera, cerca e possiede le cose di questo mondo, preferendole a Dio, che è il nostro unico sommo bene. «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6, 24).
Come capire qual è il tesoro che ci sta veramente a cuore? Lo possiamo capire con facilità e senza inganni se consideriamo quello che abitualmente pensiamo, «perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 21).
Gesù parla sul serio quando dice: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me» (Mt 10, 37).
San Cipriano, vescovo di Cartagine (200-258), ci spiega perché Gesù ha diritto ad essere amato così: “Non anteporre assolutamente nulla a Cristo, perché lui non ha anteposto nulla a noi” (SAN CIPRIANO, La preghiera del Signore, 15, CSEL 3/1, 276).
Il rimedio? Coltivare il nostro amore per il Signore. Come?
• trovando tempo per Lui (preghiera quotidiana);
• compiendo in tutto la Sua volontà, in particolare aiutando chi è più povero di noi, materialmente e spiritualmente.

3. La miseria
Un cristiano è totalmente privo del vero amore di Dio – e quindi, al di là delle apparenze, è incapace di provvedere a sé e agli altri – quando conta unicamente sulle proprie capacità: «Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 4-5). Si tratta di “nulla”, anche se le apparenze sono ammirevoli ed ammirate.
Il rimedio? Unirsi intimamente a Cristo grazie all’Eucaristia, così da poter dire con san Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). In secondo luogo contare continuamente sull’aiuto dello Spirito Santo, perché la nostra vocazione è sicuramente al di sopra delle nostre forze umane: «Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio» (Mc 10, 27).

4. La nudità
Un cristiano cade in una situazione «vergognosa» (v. 18) quando è spogliato della sua amicizia con Dio dal peccato mortale: «Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei? Rispose: Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen 3, 9-10). Ma anche il peccato veniale – per chi comprende l’intrinseca malizia di ogni “no”, anche piccolo, detto all’amore generoso e folle che Dio ha per noi – fa perdere al cristiano parte della bellezza e della dignità di figlio di Dio di cui è stato rivestito nel Battesimo. Ed è un modo meschino di essere cristiani quello di vivere limitandosi ad evitare i peccati mortali, senza mettere il massimo impegno a progredire nella santità dell’amore, lottando contro le varie forme di peccato veniale.
Il rimedio?
• Accettare dal Signore rimproveri e castighi finalizzati alla conversione (v. 19).
• Confidare nell’infinita pazienza e misericordia di Dio: «Sto alla porta e busso» (v. 20).
• Fare ritorno a casa come il figlio prodigo e accettare dal Padre – al di là di ogni attesa e merito – «il vestito più bello» (Lc 15, 22).
• «Lavare le proprie vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello» (Ap 7, 14), nel Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione, celebrato almeno mensilmente.

5. L’infelicità
Poiché la nostra felicità si compie se realizziamo il nostro bene, e poiché il nostro bene consiste nel raggiungere il fine per il quale siamo stati creati (SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Ia, q. 5, a. 4), e questo fine è la comunione con Dio-Amore (Ef 1, 3-5. 13-14), e questa comunione si compie nell’obbedire a Dio per amore, noi possiamo essere felici solo se obbediamo a Dio, in particolare accogliendo il Vangelo di Cristo. Il peccato ha complicato le cose perché spesso il bene che Dio ci comanda ci sembra pesante, mentre il male che ci viene proposto dal Maligno o dal mondo, ci sembra vantaggioso e piacevole.
Il rimedio?
• Fare attenzione all’esperienza, che non inganna: «Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia, più che in ogni altro bene» (Sal 118, 14).
• Rinnegare l’amor proprio (Mt 16, 24) e seguire Gesù sulla via delle beatitudini, in particolare nella mitezza (Mt 5, 5, 5), nella misericordia (Mt 5, 7), nella gratuità (Lc 14, 14) e nel servizio (Gv 13, 14-17).

La Meditazione realizza un rapporto profondo e duraturo con la Parola di Dio, e questa, proprio perché è parola di Dio, trasforma il mio modo di vedere e di agire, cambia qualcosa nella mia relazione con Cristo: «Se rimanete nella mia parola, voi siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32).

III. L’ORAZIONE

La Parola di Dio, che grazie alla Meditazione è diventata una parola diretta a me personalmente, richiede una mia risposta, che si attua nell’Orazione, cioè in un dialogo con il Signore.
Perché questo mio parlare al Signore sia autentica preghiera, e cioè “una relazione viva e personale con il Dio vivo e vero” (CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 2558), è necessario che io mi rivolga al Signore tenendo conto di quello che:
• Lui mi ha detto con la Sua Parola, in modo che la mia risposta sia coerente e pertinente con quello che Lui mi sta rivelando e chiedendo;
• Io sto vivendo, perché la preghiera diventi un’esperienza nella quale la mia vita si trasfigura.
Frutto dell’Orazione è una relazione rinnovata con il Signore.

IV. LA CONTEMPLAZIONE

Più che le altre tappe della Lectio divina, la Contemplazione è dono dello Spirito Santo (Rm 8, 26). È utile sapere, per discernere e per collaborare con la grazia, che l’Orazione diventa Contemplazione quando:
• al discorso subentra l’intuizione, alle parole lo sguardo d’amore silenzioso e riconoscente;
• alla ricerca e alla fatica subentrano il riposo e la pace;
• al desiderio di trovare l’Amato subentra l’esperienza dell’unione con Lui.

V. LA TESTIMONIANZA

“Chi medita la legge del Signore, porta frutto a suo tempo” (LITURGIA DELLE ORE, Quaresima – Ufficio delle letture, Giovedì dopo le Ceneri). Il Signore mi dona con abbondanza la sua Parola perché, dopo averla accolta nel mio cuore, diventi nella mia vita come un seme che produce il suo frutto (Mt 13, 3-8. 23).
Il frutto di questa Lectio, deve essere l’impegno di coltivare un amore nuovo:
• nutrito e illuminato dalla Parola;
• deciso a mettere per davvero il Signore prima di ogni altra creatura;
• umile e fiducioso più nella grazia dello Spirito Santo che nelle proprie risorse umane;
• disposto a faticare e a soffrire per il Signore;
• desideroso di vivere una profonda amicizia con Cristo;
• capace di lottare contro l’amor proprio e di servire con generosità.

SIA LODATO GESÙ CRISTO!

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La Lectio divina

LA LECTIO DIVINA

(Padre Domenico Maria del Cuore di Gesù eremita diocesano)

A. DEFINIZIONE INTRODUTTIVA

È una lettura: «Chiamo lectio divina la lettura di una pagina biblica, che tenda a diventare preghiera e a trasformare la vita» (Card. Carlo Maria Martini).
È divina perché:
• l’oggetto della tua lettura è la parola di Dio, da Lui ispirata e quindi è realmente divina;
• devi fare questa lettura sotto l’azione dello Spirito di Dio che, essendo l’autore che ha ispirato la Sacra Scrittura, è anche l’unico che ne può garantire l’autentica interpretazione;
• ha come fine quello di portare te, discepolo-eremita, che preghi la Parola, a realizzare la tua vocazione di diventare partecipe della vita divina.

B. DISPOSIZIONI GENERALI

Il frutto della Lectio divina, ben più che dal corretto uso del metodo tradizionale, dipende dall’atteggiamento interiore con cui ti accosti, giorno per giorno, a questa forma di preghiera.

1. Umiltà
Hai bisogno di nutrirti ogni giorno del pane della Parola di Dio (Mt 4, 4).
Come i tuoi padri, non sei capace, senza l’aiuto di Dio, di accogliere la Sua Parola (Gv 1, 9-11).

2. Pentimento
Tante volte hai resistito alla Parola di Dio: «Signore, pietà!».
Oggi vuoi ascoltare il Signore, Lui solo, e non il tuo “io”, né il mondo, né il Tentatore.

3. Riconciliazione
Non puoi essere accolto nella luce e nell’abbraccio dell’amore di Dio, se sei in collera con il tuo prossimo: «Signore, Ti voglio riconoscere ed amare in tutti, amici e nemici!».

4. Fiducia
Se tu vuoi ascoltare e obbedire al Signore, molto più Lui desidera parlarti e guidarti, perché ti ama come un padre. Lui ti attira a Sé, e nella Sua Parola c’è una forza divina e creatrice: devi solo accoglierla (Is 55, 10-11).

5. Fedeltà
Devi impegnarti a fare nel modo migliore possibile la tua parte, in particolare dedicare alla Lectio divina il tempo previsto dalla tua REGOLA (l’orario quotidiano e la durata prevista), e far tesoro degli insegnamenti trasmessi dai Maestri spirituali.

6. Disponibilità
Ti devi porre ogni volta davanti al Signore come una tela bianca, senza alcuna riserva, rinunciando ai tuoi punti di vista, ai tuoi gusti e ai tuoi progetti, pronto a partire come Abramo, a lasciare tutto come Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni.

7. Pazienza
Ti è chiesto di fare del tuo meglio, a partire dalle concrete possibilità che sono a tua disposizione, sia per quanto riguarda il tuo stato interiore che per le circostanze esteriori. Il frutto spirituale della tua Lectio dipende sempre dal Signore, che guarda alla buona volontà, non al risultato.

8. Libertà
Userai il metodo tradizionale come un mezzo per raggiungere il tuo fine, che è pregare (cioè vivere un dialogo d’amore con il Signore) con la Parola: il tuo modo di utilizzare il metodo deve adattarsi al mutare delle tue situazioni interiori ed esteriori.

9. Gratitudine
Il Signore è buono con te, concedendoti il desiderio, il tempo e l’aiuto per dissetare il tuo cuore alle sorgenti della Sua Parola.

10. Amore
Ti dedichi alla Lectio divina non per “saperne di più”, ma per conoscere il tuo Amato, per ascoltarLo, per accogliere il Suo amore, per donarti a Lui e riposare sul Suo Cuore.

C. INVOCARE LO SPIRITO SANTO

Questa preghiera (epíclesi) è fondamentale perché:
1. La Scrittura è opera dello Spirito Santo per cui «deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Dei Verbum, 12).
2. Senza lo Spirito non sei in grado di pregare (Rm 8, 26-27), di realizzare una comunione d’amore con il Padre (Rm 8, 14-16) e il Figlio suo Gesù Cristo (Rm 8, 9b).
3. Solo lo Spirito Santo ti darà la forza di realizzare la conversione del cuore, cioè l’obbedienza alla volontà di Dio che ti verrà manifestata pregando la Parola.

Puoi fare questa preghiera utilizzando dei testi tradizionali come il Vieni, o Spirito creatore (Inno dei primi e secondi Vespri di Pentecoste) o il Vieni, Santo Spirito (sequenza dell’Eucaristia di Pentecoste). Puoi anche invocare lo Spirito in modo spontaneo, semplice, breve, avendo cura di rinnovare il tuo impegno a vivere la Lectio con un atteggiamento raccolto (silenzio e pace interiore), umile (senza pretese) e disponibile all’ascolto.

D. LEGGERE

1. Che cosa leggere
Puoi pregare il testo biblico:
a. che ti è presentato, giorno per giorno, dalla Liturgia della Chiesa; in questo caso ti conviene privilegiare il brano evangelico, perché il Signore Gesù è il compimento di tutte le Sacre Scritture;
b. scegliendo di percorrere tutto di seguito un libro della Bibbia (Lectio continua); questo metodo, che ha il vantaggio di aiutarti ad assimilare più agevolmente il messaggio di un libro, ha però l’inconveniente di distoglierti un po’ dal filone liturgico (che ti tiene in comunione con il cammino quotidiano della Comunità ecclesiale), per cui ti conviene adottarlo: [1] per brevi periodi; [2] non durante i tempi forti dell’anno liturgico (Avvento-Natale, Quaresima-Pasqua); [3] in funzione di particolari esigenze del tuo cammino spirituale; [4] seguendo il consiglio del tuo Padre spirituale;
c. avendo cura di applicarti ad un brano che non sia troppo lungo (rischieresti di disperderti) e che abbia un senso compiuto (ad es.: un insegnamento su un tema specifico, una parabola, un racconto di guarigione, ecc.).

2. Come leggere
Anche la semplice lettura ti prepara all’ascolto e all’incontro con il Signore, se ti impegni a leggere:
a. in modo vocale (non solo mentale), perché la parola ascoltata produce un’eco più profonda nel tuo intimo;
b. con calma, in modo lento e attento, perché tutto quello che è scritto è importante per te;
c. con venerazione, in piedi o in ginocchio, e baciando il Libro al termine della lettura, perché è Parola di Dio;
d. a più riprese (è ottima cosa se fai una prima lettura del brano la sera precedente, al termine della Compieta: in questo modo la Parola inizia il suo lavoro in te già durante il riposo notturno);
e. con la certezza di fede che quella Parola è per te, oggi, da parte del Signore.

3. Cercare il senso letterale
a. Ogni testo può dare origini a diverse letture-interpretazioni.
b. Mettere bene a fuoco il senso letterale è la premessa fondamentale perché tu possa: [1] realizzare un vero ascolto del Signore che ti parla; [2] ricavare dal testo sacro quelle interpretazioni spirituali e quelle applicazioni al vissuto che siano benefiche per te che leggi.
c. Qual è il senso letterale? «Il senso letterale della Scrittura è quello espresso direttamente dagli autori umani ispirati. Essendo frutto dell’ispirazione, questo senso è voluto anche da Dio, autore principale. […] Ammettere dei significati eterogenei equivarrebbe a togliere al messaggio biblico le sue radici, che sono la parola di Dio comunicata storicamente, e ad aprire la porta a un soggettivismo incontrollabile» (PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 1993, EV 13/2995-3001).
d. Come puoi trovare il senso letterale? «Il senso letterale lo si discerne grazie a un’analisi precisa del testo, situato nel suo contesto letterario e storico. Il compito principale dell’esegesi è proprio quello di condurre a questa analisi» (PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 1993, EV 13/2997). Concretamente, per la tua Lectio di eremita (e non di studioso o di predicatore) devi:
• utilizzare una buona traduzione della Bibbia, e cioè quella ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, usata nella Liturgia cattolica;
• disporre di un commento esegetico (almeno per il Nuovo Testamento), che puoi consultare per verificare e approfondire il significato di alcuni passaggi “difficili”; è bene che tu faccia ricorso a questo commento, normalmente, al di fuori del tempo di preghiera;
• individuare la frase principale del testo, attorno alla quale ruota tutto il resto; spesso è una parola di Gesù;
• approfondire il senso dei termini che compongono tale frase, in particolare del verbo (significato, tempo);
• collocare il testo nel suo contesto letterario, dando uno sguardo a quello che precede e a quello che segue;
• illuminare il testo che stai leggendo accostandovi altri passaggi della Sacra Scrittura (così la Scrittura diventa interprete di se stessa: questo procedimento diventa tanto più facile e ricco quanto maggiore è la familiarità che hai con il testo sacro, grazie ad una lettura assidua ed integrale di tutti i libri della Bibbia: questa lettura è chiamata Lectio corsiva) che:
o ti vengono incontro spontaneamente;
o puoi cercare utilizzando referenze marginali e note della tua Bibbia, o concordanze;

4. Scrutare con discernimento
La lettura e l’analisi fatte con l’intelligenza ti richiedono:
• tempo: devi fermarti, rimanere sulla Parola e nella Parola; cerca di accogliere la Parola come la buona terra accoglie il seme (Mt 13, 23); solo così la Parola ti farà conoscere la Verità (Gv 8, 31-32) e ti darà la capacità di portare il frutto dell’amore (Gv 15, 7);
• umiltà: non pretendere di esplorare con rigore scientifico o con vanità di erudizione tutti i possibili elementi e significati del testo che leggi;
• temperanza: dedica ordinariamente alla lettura un terzo del tempo che hai a disposizione per la tua Lectio divina, perché stai cercando l’incontro con il Signore e non la scienza (sia pure biblica o teologica);
• disponibilità e docilità al “tocco” imprevedibile dello Spirito Santo: è Lui che ti farà riconoscere quella scintilla di verità che deve essere per quel giorno il nutrimento spirituale della tua mente e del tuo cuore.

E. MEDITARE

1. Passare dal testo alla vita
Mentre nella lettura l’impegno principale è quello di applicarti totalmente al testo per arrivare a capire che cosa Dio ha voluto dire per mezzo dell’autore ispirato, nella meditazione devi applicare il testo alla tua vita per capire che cosa Dio vuole dire a te, oggi.

2. Scoprire il senso spirituale
a. Il testo biblico diventa Parola per te (e cioè profezia) grazie all’azione dello Spirito Santo che ti dona una comprensione (non più letterale, umana, psichica e carnale) spirituale di quanto hai letto (Gv 6, 59-63; 1 Cor 2, 6-16), una comprensione di cui hai bisogno per vivere da creatura nuova, rinata dallo Spirito, cioè come figlio adottivo di Dio.
b. Qual è il senso spirituale? «Possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture» (PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 1993, EV 13/3003).
c. Il senso spirituale, pur nella sua ricchezza inesauribile, può essere distinto e articolato in senso:
• allegorico: consiste nel riconoscere in ogni parte della Scrittura un insegnamento che riguarda la tua fede in Cristo, anche se apparentemente parla di altro (il verbo greco allegoréo significa appunto dire una cosa intendendone un’altra); ad es. il “segno di Giona”: l’autore del libro di Giona, raccontando l’episodio del pesce che inghiotte il profeta e lo custodisce nel suo ventre per tre giorni e tre notti (Gn 2), mostra come Dio esercita la Sua autorità e la Sua provvidenza nei confronti di questo profeta ribelle; Gesù, rispondendo agli scribi e ai farisei che vogliono un segno, concede solo il «segno di Giona il profeta» – «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12, 38-40) –, rinviandoli all’evento-segno della propria Risurrezione; scopriamo così che al di sotto del senso letterale che racconta una disavventura del profeta, lo Spirito Santo ha nascosto un senso spirituale che prefigura un mistero della vita di Cristo;
• morale: consiste nel ricavare delle regole di comportamento cristiano – specie per quello che riguarda il tuo amore verso Dio e verso il prossimo – dai testi biblici;
• anagogico: consiste nel riconoscere nei testi biblici elementi di conoscenza della vita eterna – delle promesse che ti è dato già ora di pregustare – che Dio prepara ai suoi servi.
d. Per riconoscere il senso spirituale è necessario che tu ti impegni a:
• assimilare la parola letta con una applicazione paziente e mnemonica (ripetendo il passaggio centrale del brano), che i Padri chiamano “ruminatio”;
• lasciare che la Parola agisca in te: «Rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta noncome parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti» (1 Ts 2, 13);
• collegare la parola letta – sia essa dell’Antico o del Nuovo Testamento – con la Persona di Gesù, la Sua missione, le Sue parole e i Suoi gesti, ed in particolare con la Sua Pasqua di Passione-Morte-Risurrezione; a tal fine devi tenere presente che:
o tutto l’Antico Testamento è una preparazione a Gesù, e Lui ne è il compimento: per questo se l’A.T. ti aiuta a scrutare il N.T., il N.T. è la chiave di lettura che ti introduce alla comprensione più profonda dell’A.T.;
o il cuore del N.T. sono i Vangeli, e il cuore dei Vangeli sono le parole di Gesù;
o devi interpretare le singole parole di Gesù alla luce della globalità del Suo insegnamento, il Suo insegnamento alla luce del Suo comportamento e il Suo comportamento alla luce della Sua Pasqua;
o la Pasqua di Gesù (alla quale è intimamente legato il dono dello Spirito Santo) è come il prisma attraverso il quale devi analizzare ogni raggio di luce contenuto nella Scrittura, per riuscire a vedere e a gustare gli inesauribili colori dell’amore divino rivelato e donato nella storia della salvezza; in questa ricerca, in questa riflessione sarà utile che ti lasci guidare da questa domanda: «Quale volto di Cristo mi rivela la Parola letta, quale volto del Padre, quale volto del Dio-Amore?». In questo modo cresce la tua conoscenza, si approfondisce il contenuto della tua fede: scopri il senso “allegorico”;
• riconoscere come ciò che Cristo ha fatto «una volta per sempre» (Eb 10, 10) è reso presente ed operante per te, qui ed ora, nell’economia sacramentale custodita e amministrata dalla Chiesa; ad es.: passare dalle conversioni operate da Gesù alla grazia del sacramento della Penitenza e della Riconciliazione; dalle risurrezioni al dono della vita nuova ricevuto nel Battesimo; dalle moltiplicazioni dei pani al nutrimento spirituale dell’Eucaristia;
• scoprire il senso globale della tua vita e dei singoli eventi in cui sei coinvolto, per vedere le cose con gli occhi di Dio, all’interno del Suo grande disegno di salvezza; ad es.: la povertà materiale non è vergognosa, se ti aiuta a diventare umile e a fidarti della divina Provvidenza; la sofferenza non è una perdita, se ti aiuta a conformarti a Cristo, obbediente e consacrato alla salvezza dei peccatori; la morte, tua ed altrui, non è la fine di tutto, ma la porta che ti introduce nella casa del Padre, con Cristo e tutti i santi (è il senso “anagogico” – da anà = in alto + ago = condurre – ciò che riguarda le cose celesti) o escatologico (da èskatos = ultimo, il senso che riguarda la sorte finale del mondo e tua);
• esaminare la tua vita, per verificare se sei coerente con la Parola letta e per riconoscere quello che in te deve cambiare, quello che il Signore chiede a te, ora, perché tu diventi un discepolo che non si compiace solo di ascoltare la Parola, ma uno che la fa, che la incarna, diventando conforme a Cristo (è il senso “morale”).

3. Un’icona evangelica
Il terzo Vangelo ti offre nella Vergine Maria un modello di creatura che medita: «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2, 19. 51). Questa parola ti insegna che la meditazione:
a. si fa con il cuore (non solo con la mente, che è, invece, il mezzo principale della lettura), e cioè coinvolgendo anche gli affetti e la volontà, tutta la persona;
b. consiste nel collegare, nel mettere a confronto (v. 19, sumbàllousa, da sun = insieme + ballein = gettare) le parole e gli avvenimenti che riguardano il Signore Gesù e la tua vita con Lui, per arrivare a coglierne il significato pieno e le conseguenze che ne derivano;
c. richiede tempo e memoria, per realizzare il confronto tra parole ed avvenimenti successivi (v. 19, sunteréo = custodire qualcosa nella memoria, per non dimenticarlo);
d. richiede raccoglimento interiore (v. 51, diateréo = custodire qualcosa all’interno, senza parlarne);
e. ti è necessaria sempre, sia quando l’azione di Dio nella tua vita asseconda i tuoi desideri (cfr. v. 19: i prodigi che accompagnano la nascita di Gesù), sia quando la tua fede è messa alla prova (cfr. v. 51: Maria e Giuseppe non comprendono le parole di Gesù smarrito e ritrovato nel tempio), per avere stabilità in quello che dice Lui (Mc 13, 31), e non in quello che senti tu.

4. Il frutto della meditazione
Grazie alla meditazione la Parola del Signore rimane in te e tu rimani nella Sua Parola. Poiché questa Parola è divina, una Parola che è «spirito e vita» (Gv 6, 63), che è feconda (Is 55, 10-11) e che opera con potenza (Rm 1, 16), essa:
a. ha la forza di agire nel tuo cuore: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32), aprendolo a passi sempre nuovi nella conoscenza viva di Cristo e nella capacità di darGli testimonianza;
b. fonda e rinnova la tua relazione con Lui, rendendoti Suo discepolo nella verità e nella libertà: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32);
c. ti dona una comunione sempre più grande con la SS.ma Trinità: «Padre, homanifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 6-9. 26).

F. PREGARE

1. Passare dall’ascolto della Parola al dialogo con il Verbo
Grazie alla meditazione, la Parola scritta diventa una parola rivolta a te personalmente, una parola che lo Spirito Santo fa giungere alla tua mente e al tuo cuore come una profezia per il tuo “oggi” (Lc 4, 21), come una chiamata che attende una risposta: è il momento dell’orazione, cioè della parola che tu rivolgi al Signore che ti sta parlando. “Se tu bussi alla porta delle Scritture, il Verbo di Dio ti aprirà” (SANT’AMBROGIO, Discorsi, VIII).

2. Come parlare al Signore
Perché il Tuo parlare al Signore sia autentica preghiera, e cioè “una relazione viva e personale con il Dio vivo e vero” (CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, 2558), è necessario che tu ti rivolga al Signore tenendo conto di quello che:
a. Lui ti ha detto con la Sua Parola, in modo che la tua risposta sia coerente e pertinente con quello che Lui ti sta rivelando e chiedendo;
b. Tu stai vivendo; a partire dalla tua reale situazione, la Parola ti porterà a rivolgerti al Signore facendo tuo quell’atteggiamento spirituale che, di volta in volta, più ti appartiene e che può esprimersi come:
• benedizione, lode e rendimento di grazie;
• umiltà, pentimento e supplica;
• fiducia, domanda e abbandono;
• obbedienza, rinuncia e sacrificio;
• adorazione, comunione e amore.

3. Dalle parole alla comunione
Il Signore non ha bisogno che tu Lo informi sulle tue necessità: le conosce già; non ha bisogno che tu lo renda più benevolo nei tuoi confronti: ti ama già alla follia, da sempre. Per questo non serve che tu moltiplichi le tue parole (Mt 6, 7-8): quello che conta è che tu ti incontri con Lui, che tu Lo accolga e che ti doni a Lui: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). “Le molte parole nell’orazione sovente riempiono la testa di distrazioni, mentre la brevità, e talora una parola sola, suol conciliare il raccoglimento” (S. GIOVANNI CLIMACO, La scala del Paradiso, XXVIII).

G. CONTEMPLARE

1. Dalla relazione all’estasi
Rimanendo alla presenza del Signore – «Rabbì, è bello per noi essere qui» (Mc 9, 5) – il tuo cuore è rapito dalla sua bellezza e dalla sua bontà, e non desidera altro che vivere per Lui, in Lui e di Lui. La fede (come virtù teologale che ti abilita ad una conoscenza soprannaturale) e la carità (è la virtù teologale che ti abilita ad amare Dio divinamente, a rispondere al suo Amore con il tuo stesso amore «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»: Rm 5, 5) sono le ali della contemplazione. Il tuo tu umano si perde nel Tu divino, in quella perfetta comunione d’amore per la quale tu sei tutto in Lui e Lui è tutto in te (Ct 6, 3; Gv 17, 10; 1 Cor 15, 28).

2. Dono di Dio e disposizioni personali
Più che ogni altra forma di preghiera, la contemplazione è dono dello Spirito Santo (Rm 8, 26). Ti è utile ricordare (per discernere e per assecondare l’azione della grazia) che la preghiera diventa contemplativa quando:
• al discorso subentra l’intuizione, alle parole subentra lo sguardo pieno di stupore e di riconoscenza;
• la ricerca e la fatica lasciano il posto al riposo e alla pace;
• alimentando il desiderio di trovare l’Amato giungi all’esperienza dell’unione con Lui: «Il mio Amato: alla sua ombra desiderata mi siedo, è dolce il suo frutto al mio palato. Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2, 3-4).

H. CONDIVIDERE

1. La Parola nella Chiesa
La Sacra Scrittura – in particolare il Nuovo Testamento –, che leggi e preghi, Ti orienta necessariamente alla Comunità cristiana, alla Chiesa, perché:
a. è all’interno della Chiesa che il testo sacro è stato scritto, con l’assistenza dello Spirito Santo;
b. è dalla Chiesa che il testo sacro è stato custodito e trasmesso di generazione in generazione fino a te;
c. l’unico Vangelo di Cristo crea un vincolo spirituale tra coloro che lo accolgono: «Sopportandovi a vicenda con amore, cercate di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti» (Ef 4, 2-6);
d. solo il Corpo di Cristo, di cui tu sei un piccolo membro (1 Cor 12, 27), possiede la pienezza di quei doni dello Spirito (profezia, linguaggio di sapienza e scienza, interpretazione ed insegnamento) che consentono di scrutare le ricchezze inesauribili della Parola di Dio; per questo Paolo esorta i Colossesi: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente, ammaestrandovi e ammonendovi reciprocamente con ogni sapienza per mezzo di salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3, 16). Inoltre «L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa» (CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, 10);
e. il cuore di tutto il Vangelo è l’amore a Dio e al prossimo (Mt 22, 34-40); questo amore si realizza in verità e pienezza solo nelle relazioni fraterne: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20). L’amore fraterno può essere favorito da quella conoscenza personale e da quell’arricchimento spirituale che si opera quando condividi con gli altri il frutto della Lectio.

2. Edificazione reciproca
Perché la condivisione sia un’occasione di crescita spirituale sarai vigilante perché quando:
a. ascolti, è importante che il tuo cuore abbia un atteggiamento di:
• accoglienza e rispetto per quello che il fratello ha capito e vissuto nella sua Lectio;
• umiltà e di rendimento di grazie per i doni che il Signore fa agli altri;
• intercessione per confermare e sostenere il cammino del fratello;
b. parli, è necessario che ti impegni ad essere:
• semplice, avendo più l’atteggiamento interiore di chi racconta un’esperienza, che non quello di chi ha qualcosa da insegnare;
• benevolo, evitando giudizi su altri;
• breve, presentando quello che è più utile per crescere nella vita spirituale;
• discreto, non mostrando i “segreti del Re”;
• sereno, con la fiducia che chi ti ascolta ti ama, e ti accompagna con la sua preghiera.
C’è posto anche per il dialogo, ma chi presiede deve vigilare che non si scivoli nella discussione.

I. PORTARE FRUTTO

“Chi medita la legge del Signore, porta frutto a suo tempo” (LITURGIA DELLE ORE, Quaresima – Ufficio delle letture, Giovedì dopo le Ceneri). Il Signore ti dona con abbondanza la sua Parola perché, dopo averla accolta nel tuo cuore, diventi nella tua vita come un seme che produce il suo frutto (Mt 13, 3-8. 23). Questo frutto è ad un tempo l’intenzione e la gloria del Padre (Gv 15, 1-2. 8), l’opera di Cristo in te (Gv 15, 5) e il compimento della tua vocazione cristiana (Gv 15, 16).

1. La conversione
La Parola di Dio ti è rivolta certamente per nutrire la tua fede (Gv 20, 31) e la tua preghiera (in particolare il Salterio biblico), ma soprattutto per trasformare la tua vita, e cioè per conformare la tua volontà a quella del Padre, e rendere il tuo comportamento come quello di Cristo. Lo dice chiaramente lo stesso Gesù:
a. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21);
b. «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 14-16).
Ogni Lectio ti aiuta a portare avanti questo impegno di conversione (mai esaurito perché sei chiamato a diventare perfetto come il Padre: Mt 5, 48) con fedeltà e concretezza, mostrandoti giorno per giorno i passi successivi che il Signore vuole da te.

2. L’amore
Il frutto per eccellenza che il Signore vuole raccogliere (Mt 21, 34) dal tuo cuore nutrito dalla Parola è sicuramente quello dell’amore. Infatti l’amore:
a. è il più grande comandamento della Legge (Mt 22, 36-40), il comandamento nuovo e specifico che Gesù consegna ai suoi discepoli (Gv 13, 34; 15, 12);
b. sarà il criterio adottato nel giudizio finale (Mt 25, 31-46);
c. è l’unica realtà che «non avrà mai fine» (1 Cor 13, 8), perché costituirà il cuore della vita beata che Dio-Amore ti prepara per tutta l’eternità.
Per questo, avrai cura di vivere la tua Lectio divina come un’occasione quotidiana per radicare il tuo cuore nell’amore di Dio e del prossimo, e dare così unità, concretezza ed autenticità al tuo cammino spirituale.
Anche la tua testimonianza dipende tutta dal frutto dell’amore:
a. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri. La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 13, 35; 17, 22-23);
b. «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. […] non sono nulla» (1 Cor 13, 1-2).

3. Grazia su grazia
Poiché il mistero dell’amore di Dio a te rivelato e donato in Cristo è inesauribile, devi perseverare nella Lectio divina e nutrirti abbondantemente della parola di Cristo (Col 3, 16): infatti grazie alla sempre nuova conoscenza di Lui crescono incessantemente nel tuo cuore la fede (Gv 20, 30-31) e il frutto dell’amore (Gv 17, 26).
Ma poiché «chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio» (1 Gv 4, 7), avviene pure che ogni tuo progresso nell’amore, che ti porta a compiere la volontà di Dio e a servire il fratello, si trasforma in una nuova capacità di entrare nel mistero di Cristo, per una conoscenza esperienziale della sua dottrina e della sua persona; questa nuova conoscenza, a sua volta, diviene il trampolino di lancio per una tua nuova capacità di amare Lui, per Lui ed in Lui.
E così, se alla conoscenza di Cristo che possiedi (è un dono!) corrispondi con un amore obbediente e generoso, il Signore ti aggiunge altra conoscenza: «A chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza» (Mt 25, 29).

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Summum igitur studium nostrum sit in vita Iesu meditari.
Qui autem vult plene et sapide verba Cristi intelligere
oportet ut totam vitam suam illi studeat conformare (IMITAZIONE DI CRISTO, I, 1, 3. 6).

Pertanto, la nostra occupazione più alta sia quella di meditare sulla vita di Gesù.
Ma chi vuole capire le parole di Cristo in modo pieno, e gustarle,
è necessario che si impegni a conformare a Lui tutta la propria vita.

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