L’ARTE DEL PERDONO
Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi,
perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo (Ef 4, 32).
Introduzione:
1. Usiamo il termine “arte” nel senso di una capacità operativa, di una competenza nella quale confluiscono un dono ricevuto e una abilità acquisita attraverso l’apprendimento e l’esercizio.
2. Estendiamo l’esigenza del perdono non solo ai nemici che ci hanno fatto o continuano a farci del male, ma anche a tutti coloro che, pur essendoci uniti per vincoli di fede, di amicizia e di sangue, non hanno fatto tutto il bene che desideravamo, deludendo le nostre attese.
3. La nostra riflessione intende essere rigorosamente spirituale, nel senso che il nostro obiettivo è quello di presentare il modo cristiano di affrontare le situazioni di inimicizia; per questo faremo costante riferimento alla parola di Dio. Nello stesso tempo, però, terremo presente anche le implicanze psichiche del perdono, perché è tutta la nostra persona che deve essere convertita e guarita.
4. La scelta del perdono cristiano è onerosa e dobbiamo superare tenaci resistenze per realizzarla fino in fondo, ma è irrinunciabile per il discepolo di Cristo; il Signore, infatti, ha posto il “suo” comandamento dell’amore al cuore del Vangelo, e il perdono dei nemici al cuore del modo cristiano di amare. Perciò, prima di analizzare le condizioni e le tappe del perdono cristiano (B), richiameremo brevemente l’originalità dell’insegnamento di Cristo sull’amore fraterno (A).
A. L’AMORE CRISTIANO
L’insegnamento di Cristo può essere così riassunto:
1. L’amore a Dio e al prossimo è il primo e più grande comandamento, nel quale si concentra e dal quale dipende tutta la Scrittura:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima e con tutta la tua mente […]
Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 36-40).
Questa è la risposta che da Gesù a un fariseo-dottore della legge che lo interroga dal punto di vista dell’Antica Alleanza.
2. Quando però Gesù consegna ai suoi discepoli il «suo» comandamento, quel comandamento che riassume il suo insegnamento, la sua opera, la sua vita e il suo dono, si esprime così:
Questo è il mio comandamento:
che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.
Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici (Gv 15, 12-13).
Gesù dice bene quando afferma che il suo comandamento è un comandamento “nuovo” (Gv 13, 34); infatti, Egli ha “portato a compimento” (Mt 5, 17) anche questo comandamento tradizionale introducendovi:
• una misura nuova: il Suo stesso modo di amare, un modo divino;
• un prezzo nuovo da mettere sul conto: il dono della propria vita, non solo come servizio e disponibilità al sacrificio, ma anche come impegno a rispondere al male con il bene, dopo aver rinunciato alla logica umana della “giustizia”.
Perciò, è rinnegare la Croce di Cristo mantenere l’amore di se stessi come misura dell’amore agli altri, invocando all’occorrenza gli argomenti di una “ragionevole e naturale giustizia” o di una “sana psicologia”: il buon senso e la psicologia ci possono certamente aiutare a essere persone equilibrate e libere ma, per essere cristiani, il giusto e sano amore di noi stessi deve essere superato per consentirci di seguire Cristo sulla via del “rinnegamento di sé”, della “perdita”, in una parola, della “Croce” (Mc 9, 34-35), contando sulle risorse divine della sapienza e della potenza dello Spirito Santo.
3. Sappiamo che il “prossimo” dell’Israelita era circoscritto entro i limiti del suo popolo; Gesù ha superato ogni limite, ogni argine posto all’amore, chiedendo ai suoi discepoli di amare tutti, perfino i nemici:
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;
ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole
sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?
Non fanno così anche i pubblicani?
E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?
Non fanno così anche i pagani?
Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5, 43-48).
Chiedendoci di perdonare tutti, Gesù ci chiede anche di perdonare tutto, sempre e cordialmente (Mt 18, 21-35); e ci avverte che Dio userà con noi la misura che noi avremo usato con i nostri fratelli (Mt 6, 14-15).
B. LA VIA DELLA PACE
Questo insegnamento di Gesù è semplice da capire, ma sono rare le persone che riescono a realizzarlo nella loro vita, e questo per difetto di:
• fede (insufficiente chiarezza sulle esigenze integrali del Vangelo);
• di buona volontà (non disponibilità a perseverare nella fatica di attuare la parola di Cristo);
• discernimento, poiché non:
o mettono in opera gli strumenti idonei per raggiungere il fine voluto;
o tengono conto del fatto che il perdono, normalmente, è un frutto che matura lentamente passando attraverso alcune tappe obbligatorie; la pretesa frustrata di risolvere i problemi con facilità, rapidità e spontaneità si trasforma in scoraggiamento rinunciatario e/o colpevolizzante, oppure in una contestazione riduttiva delle esigenze evangeliche.
La perfezione del perdono (rigenerazione-crescita dell’amore ferito, tale da coinvolgere simultaneamente e armoniosamente i pensieri, i sentimenti, la volontà e i comportamenti) richiede ascesi (àskesis: esercizio) in cui la volontà, con l’aiuto della grazia, prende per mano sentimenti, pensieri e azioni per educarli-guidarli secondo il cuore di Cristo.
Ecco le scelte da fare, le tappe da percorrere per affrontare cristianamente la situazione in cui veniamo a trovarci quando il comportamento altrui ci diventa ostile, ci fa male, ci delude:
1. Il controllo dell’ira:
consiste nell’esercitare il dominio di sé (Gal 5, 22), nel controllare le proprie reazioni spontanee, immediate e negative, perché «l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio» (Gc 1, 20), e tutto si aggrava e si complica, nell’immediato e nel seguito, quando al male si risponde con il male. A questo proposito, non siamo così ingenui da invocare con leggerezza il diritto di ricorre alla “santa collera”: S. Francesco di Sales (Trattato dell’amor di Dio, 10, 16) ci invita a non prenderci il lusso di “imitare” certi episodi della vita di Gesù e dei santi, se non quando saremo giunti al loro grado di santità perché, diversamente, sotto il pretesto dello zelo per la gloria di Dio e la conversione degli altri, daremo libero corso alle nostre passioni.
2. La decisione di assolvere:
consiste nell’offrire al Signore la determinazione interiore di «non tenere conto del male ricevuto» (1 Cor 13, 5), di cancellarlo come realtà che non esiste più per noi (esattamente come fa Dio con i nostri peccati), di non considerare chi ci ha fatto del male come un debitore che deve pagare, che deve riparare.
Questa decisione ci fa entrare in una più profonda comunione di volontà con il nostro Dio che:
• vuole il bene di tutti con un amore misericordioso;
• può così avere accesso al nostro cuore per cominciare a guarirlo, con il nostro consenso, di cui Lui vuole sempre avere bisogno.
Dopo essere stati “offesi”, è necessario compiere quanto prima questo gesto interiore, in un dialogo-preghiera-patto esplicito con il Signore, con la fiducia che a partire da quel momento:
• il Signore guarderà alla nostra volontà così espressa, non al tumulto dei nostri sentimenti;
• noi abbiamo intrapreso in verità il cammino del perdono.
3. La rinunzia alla vendetta:
consiste nel rendere operativa l’«assoluzione» impegnandoci ad evitare ogni comportamento ostile, intenzionale e volontario, diretto o indiretto, verso chi ci ha fatto o continua a farci del male. Ciò che deve ispirare il nostro agire non sono i sentimenti feriti, ma la volontà che ha “assolto”: è questa la “verità” che abbiamo scelto per amore di Cristo, e questa verità deve passare dalla decisione interiore alle azioni esteriori, grandi e piccole. Contenendo dentro il cuore l’amarezza e l’aggressività, non siamo “doppi” o “ipocriti”, perché il vero “io” che intendiamo essere non si identifica con i nostri sentimenti spontanei disordinati, anche se motivati e “legittimi”, ma con la volontà decisa ad “assolvere”, per amore di Cristo.
La rinunzia alla vendetta non è remissivismo, debolezza o passività di fronte alla responsabilità, che tutti abbiamo, di edificare gli altri nel bene e di coltivare le relazioni fraterne, quando insorgono difficoltà; il Signore ci vuole certamente attivi, intraprendenti e corresponsabili rispetto a quel grande bene comune che è la concordia e la comunione fraterna: è però necessario resistere alla spontanea reazione punitiva, in tutte le sue forme e sfumature, perché non ci accada di farci iniquamente giustizia con le nostre mani («Non fatevi giustizia da voi stessi»: Rm 12, 19); al contrario, rinunziando alla vendetta daremo alla grazia di Dio tempo e modo di abilitarci, al momento opportuno, di essere operatori di misericordia e di riconciliazione.
4. La custodia delle labbra:
consiste nell’evitare di raccontare ad altri il male ricevuto; il parlarne senza necessità sarebbe:
• maldicenza, anche se il racconto fosse perfettamente aderente ai fatti accaduti;
• una forma di vendetta, nel senso di una rivincita verbale ed emotiva, interiore ed esteriore;
• un rimangiarsi la decisione di “assolvere” perché, raccontando il torto subito, noi diveniamo accusatori. Al contrario, come insegna s. Paolo: «La carità tutto copre» (1 Cor, 13, 7).
Il bisogno di parlare è comunemente giustificato e vissuto come uno «sfogo» liberatorio: è un’illusione perché un esame attento della dinamica affettiva e dei risultati interiori dello «sfogo» mostra chiaramente che si tratta di una replica (reply) del vissuto doloroso, replica che riapre la ferita; lo «sfogo», quindi, non solo non ha virtù terapeutiche ma, seminando maldicenze e cercando complicità consolatorie, allontana gli obiettivi cristiani della pace del cuore e della riconciliazione interpersonale.
Il parlare del male ricevuto è utile e perfino necessario quando manchi una sufficiente forza psicologica e spirituale per “contenere” la propria sofferenza interiore e quando il male ricevuto abbia delle ricadute anche su terze persone verso le quali abbiamo delle responsabilità a motivo dei nostri doveri di stato. In questo caso la prudenza, guidata dalla carità, ci aiuterà a non perdere di vista il fine del nostro parlare e ci suggerirà di aprire il nostro cuore a chi sappiamo essere operatore di pace, in Cristo.
5. La conversione dei pensieri:
consiste nel trasformare i ricordi, i sentimenti e le discussioni interiori che invadono il cuore come un fiume in piena che straripa, in una preghiera composta di due elementi inseparabili:
a. innanzitutto una benedizione per chi ci ha fatto del male (Mt 5, 44);
b. seguita immediatamente da una supplica al Signore, chiedendo la guarigione per la propria ferita che ancora «geme», e la capacità di vivere il presente in comunione con Lui.
Questa preghiera deve essere:
• breve, per non diventare un’ occasione, sia pure «spirituale», di rimanere prigionieri del passato;
• sistematica, nel senso di affrontare e convertire i pensieri e gli stati d’animo di sofferenza e di inimicizia, tutte le volte che è necessario, con vigilanza e pazienza.
Questi «pensieri», infatti, devono essere trattati come tentazioni dell’«Accusatore» perché, se li lasciamo agire in noi, portano frutti cattivi in quanto:
• alimentano il risentimento e l’aggressività del nostro cuore verso il “nemico”;
• appesantiscono il cuore sotto una cappa di turbamento e agitazione interiore;
• ci distolgono dal riposare nella comunione con il Signore.
Nella misura in cui noi, al contrario, lottiamo contro questi «pensieri» con le armi della preghiera e della pazienza, scoraggiamo Satana dal continuare nella sua strategia (ci lascerà in pace, infatti, prima di quando lui vorrebbe), perché trasformiamo la tentazione in una occasione di:
• carità-perdono, perché benediciamo evangelicamente chi ci ha fatto del male;
• preghiera di guarigione per il nostro cuore, che noi affidiamo al Signore, il quale sa fare molto meglio del nostro «sfogo» primario, come pure del suo contrario, il «soffocare dentro», che ci potrebbe riuscire solo per breve tempo e non senza danni psicologici e spirituali;
• rinnovata comunione con il Signore, vero e unico traguardo della vita cristiana.
CONCLUSIONE:
A) La parola di Gesù e l’esperienza di coloro che cercano di metterla in pratica, testimoniano che per questa via stretta il cuore ferito ritrova sempre la pace, a prescindere dall’atteggiamento altrui:
Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore,
e troverete ristoro per le vostre anime.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero (Mt 11, 28-29).
B) Questa via fa sì che l’esperienza dolorosa dell’inimicizia non sia una “perdita” ma una occasione per inoltrarci con Cristo sulle vie specificamente cristiane e divine dell’amore, quelle dell’amore che perdona. Così cresceranno la nostra conformazione a Cristo e la nostra maturità di figli/e di Dio che hanno per vocazione, compito ed eredità eterna, l’amore.
C) Il perdono cristiano è possibile, però, solo a coloro che attingono in Cristo la sapienza della Croce e l’energia dello Spirito Santo. Quando il perdono si trascina o non si realizza, è la relazione con Cristo che è debole o malata: allora è necessario prendersene cura.
D) Il perdono non è solo possibile, è anche necessario e bello, perché è l’unica speranza che ha il nostro amore umano, così generoso e così fragile, di rigenerarsi dopo le inevitabili ferite date e ricevute per negligenza, debolezza o infedeltà.
E) Il perdono, che riporta la pace nel cuore, è un passaggio preliminare, non il traguardo ultimo della misericordia cristiana: il Signore, infatti, ci chiede poi di diventare ministri di riconciliazione perché, dove l’inimicizia ha creato divisioni e sofferenze, si realizzi una comunione fraterna ancora più vera e cordiale.